• 14/03/2019

Anne Cathrine Bomann, la vera follia è vivere

Anne Cathrine Bomann, la vera follia è vivere

Anne Cathrine Bomann, la vera follia è vivere 305 165 alemezlo
Sei mesi ancora, poi davanti a lui si spalancherà il vuoto immenso di una vita senza lavoro. Seicentottantotto ore separano, infatti, uno psicanalista nella Francia degli anni Quaranta dal momento di ritirarsi. Da quella che qualcuno chiama la “meritata pensione”, ma che per quell’uomo metodico e solitario si preannuncia come un momento di crisi profonda. Perché senza i suoi pazienti, senza le storie di chi ogni giorno gli racconta le proprie nevrosi, mentre lui finge di prendere appunti, e invece disegna caricature di uccelli, verrà inesorabilmente a galla il nulla di cui sono fatte le giornate del vecchio medico.

Una prima edizione della “Nausea” di Jean Paul Sartre ancora intonsa, che lui giura di leggere prima o poi, anche se da anni che ripete la stessa promessa, un puntiglio sospetto nel ricordare alla fedele assistente, Madame Surrugue, che lo accudisce come un’imprescindibile governante, oltre a tenere ordinata l’agenda degli appuntamenti, i pochi giorni che mancano alla sua uscita dal mondo del lavoro, fanno venire piano a piano a galla tutta la malinconia che scandisce la vita del dottore delle anime. Una sequenza di giornate tutte uguali, contrappuntate inesorabilmente dall’apparizione di persone depresse, maniacali, lunatiche, perlopiù donne, dentro le claustrofobiche pareti della casa d’infanzia. E, se non bastasse, al di là di quei muri si materializzano soltanto gli ovattati rumori di un’altra esistenza solitaria: quella del vicino con cui lo psicanalista non è mai riuscito a scambiare nemmeno quattro parole.

Quando Madame Surrugue annuncia al medico l’arrivo di una nuova paziente, lui non può che prenderla male. Visto che mancano così poche settimane alla fine della sua carriera professionale. Ma è proprio lì, in quell’incontro non voluto, nell’apparizione di una figura di donna non attesa, e anche piuttosto ingombrante, che inizia la storia di un romanzo apparentemente fragile, giocato tutto su un inseguirsi di luci e ombre, di parole non dette e pensieri difficili da confessare: “L’ora di Agathe”, il libro che ha portato a un pregevolissimo debutto la poetessa e psicologa danese Anne Cathrine Bomann, tradotto con la consueta bravura da Maria Valeria D’Avino per Iperborea (pagg. 156, euro 15).

Tenace, decisa a intraprendere il percorso di cura pur sapendo che mancano pochi mesi al pensionamento del dottore, accompagnata da una cartella clinica firmata dal dottor Durand, responsabile del reparto psichiatrico di Montpellier, che parla di “comportamenti isterici e istrionici” e di una “possibile psicosi” da tenere a bada con la somministrazione di etere e idrato di cloralio, la signora Zimmermann si distingue, fin dalla prima visita, nella massa informe di persone che si siedono sul lettino verde a raccontare i loro problemi. Tanto da meritare una serie di annotazioni, di appunti, di trascrizioni quasi fedeli delle sedute che vengono preannunciati dal suo nome: Agathe, appunto. Seguito, in numeri romani, dal susseguirsi degli incontri.

E lei, quella donna ancora giovane e affascinante, si rivela già al primo appuntamento come una persona che lo psicanalista non riuscirà a togliere dal proprio orizzonte a cuor leggero. “Una gonna marrone e una maglia nera a collo alto piuttosto informe, di almeno due misure troppo grande per il suo corpo magro”, uno sguardo intenso che tende a smarrirsi quando si prepara a raccontare gli abissi del proprio inconscio, annuncia subito di non volere accettare né ricoveri né altre medicine. A lei basta qualcuno con cui parlare. E a cui poter rivelare, lentamente, con grande difficoltà e altrettanta determinazione, il trauma inconfessabile che ha cambiato in maniera drammatica il divenire dei suoi giorni.

Agathe non ha paura a confessare al dottore di avere perso la voglia di vivere. Ma è proprio in quella sua straordinaria sincerità, nell’assoluta assenza di paura nel raccontare il disagio profondo, nella voglia di aggrapparsi alla realtà, per fuggire da un percorso di cure che prevede l’uso massiccio di medicinali e terapie devastanti come l’elettroshock, che la donna trascina il dottore in un viaggio pericoloso e affascinante. Dove non esistono più ruoli prestabiliti, definiti. Tanto da spingere lo psicanalista a chiedersi: “Non sarò io quello sul punto di diventare bipolare?”.

Invece di impazzire, il medico troverà di meglio da fare: perché avrà il coraggio, per la prima volta, di analizzare la propria vita come se fosse un osservatore esterno. Implacabile. Senza nascondersi lo squallore che, fino a quel momento, gli era invisibile.

Complice anche l’improvviso forfait di Madame Surrugue, costretta ad abbandonare il lavoro per stare accanto al marito molto ammalato, il medico comincerà ad accorgersi del suo frigorifero desolatamente vuoto, dell’incapacità di avere un dialogo, seppur minimo, con il vicino di casa. Dell’assenza di veri hobby a cui potersi aggrappare nei giorni della pensione. Ma, soprattutto, capirà di non aver trovato mai una donna come la signora Zimmermann, come Agathe. Una capace di fargli provare il desiderio di amare.

Costruito con un andamento lento che sale verso il crescendo senza mai accelerare il ritmo in maniera forzata, raccontato con una lingua scarna eppure efficace, con un tono pacato che costringe i personaggi, e chi legge, a rimettere a fuoco in continuazione le proprie (presunte) certezze sulla vita, i sentimenti, i rapporti complicati che intercorrono tra le persone, “L’ora di Agathe” ha la forza tranquilla di una carica di dinamite. Perché scardina molte certezze con la delicatezza di chi non alza mai il tono della voce. Di chi maneggia inquietanti domande senza mai togliersi i guanti bianchi. E rivela una scrittrice finora sconosciuta, come Anne Cathrine Bomann, assai brava a gestire il canone classico del romanzo nel trovare, all’interno del racconto, uno stile narrativo tutto suo.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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