• 30/08/2019

“Burning”: fuoco (invisibile) cammina con me

“Burning”: fuoco (invisibile) cammina con me

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Spesso il cinema strapazza i libri. Se ne innamora perdutamente, poi li saccheggia per costruire film che, troppe volte, conservano ben poco del fascino e delle forza dell’originale. Ma non va sempre così. Anzi, ci sono registi capaci di apprezzare a tal punto un racconto da provare a interpretarlo. Per andare al di là delle parole che lo scrittore ha affidato alla carta. Ottenendo risultati sorprendenti.

“Burning. L’amore brucia” è, senza dubbio, una liaison riuscitissima tra letteratura e cinema. Grazie al fatto che al regista coreano Lee Chang-dong non è bastato innamorarsi di un racconto breve e bellissimo dello scrittore giapponese Murakami Aruki. Quel “Granai incendiati” che fa parte dell’antologia di storie brevi “L’elefante scomparso e altri racconti”, pubblicata prima da Baldini&Castoldi nella bella traduzione di Antonietta Pastore, e poi riproposta da Einaudi. No, il cineasta di Taegu, Corea del Sud, è andato molto più in là.

Forte di un gioiellino come “Poetry”, che nel 2010 era riuscito a conquistare sia la critica che il pubblico vincendo il Premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes, Lee Chang-dong si è concesso un lungo periodo di riflessione. Non sentendosi affatto obbligato a replicare subito il successo riscosso nelle sale cinematografiche d’Europa e del mondo. E quando ha capito di essere pronto per girare un nuovo film, i suoi occhi si sono fissati proprio su quel racconto di Murakami Haruki. Sui “Granai incendiati” in cui l’autore di Kobe, che vive a Tokyo, rendeva a sua volta omaggio a un amatissimo gigante della letteratura americana: William Faulkner.

Amare significa anche tradire. O, perlomeno, non limitarsi a stare proni e attoniti davanti all’oggetto dei propri desideri. Infatti, Lee Chang-dong ha deciso di farsi affiancare nella scrittura della sceneggiatura non  da Murakami Haruki, che ha firmato il soggetto, ma da Oh Jung-mi. Un collaboratore, insomma, che lo assecondasse nel suo voler rimodellare il testo originale. Per provare a leggere nell’oscurità della storia. Per andare un po’ al di là di quello che le parole, volutamente, non dicono. Per dire e non dire, interpretare pur senza imporre uno sguardo troppo delimitato.

Così, “Burning” si svolge in Corea del Sud, nella città di Paju. E il protagonista non è uno scrittore già in carriera, con una moglie e una bella casa, ma un giovane che sogna di poter incamminarsi sulla strada della letteratura, mentre la vita sembra decisa a mettergli i bastoni tra le ruote in tutti i modi. Tanto che, dopo aver visto sparire sua madre quand’era ancora adolescente, si trova a fare i conti con un padre troppo testardo e aggressivo,  che finisce sotto processo per aver insultato e picchiato alcuni vicini della fattoria dove vive e lavora. Quando ritrova Hae-mi (la bellissima Jeon Jong-seo, che incarna perfettamente il prototipo della giovane donna moderna senza futuro), Jong-su (un imbronciato e spaesato Yoo Ah-in) capisce che la sua vita potrebbe cambiare. Perché quella ragazza, che abitava nel suo stesso quartiere molti anni prima e dice di essersi salvata dalla morte sicura dentro un pozzo quando erano bambini solo grazie a lui, ha una visione delle cose molto più leggera, sognante, creativa. Frequenta una scuola di mimo, guadagna qualche soldo mettendo in mostra il suo corpo nelle fiere, si dice convinta che la realtà possa essere modellata dalla nostra volontà. E dopo aver fatto l’amore con il vecchio compagno di giochi, gli affida il suo gatto Boiler, timidissimo tanto da stare sempre nascosto, perché lei sta partendo per un viaggio in Africa.

Jong-su, quel gatto non riuscirà mai a vederlo. Anche se continuerà a portargli il cibo regolarmente nell’appartamento di Hae-mi. Così, piano piano, l’aspirante scrittore inizierà a pensare che non esista proprio. E che anche l’episodio del pozzo sia un ricordo inventato, come un po’ tutta la vita della sua giovane amica. Quando lei ritorna dall’Africa, si porta appresso un bellimbusto di nome Ben (un efficace Steven Yeun, che non abbandona mai il suo imperscrutabile sorriso). Una sorta di Gatsby, senza problemi di denaro, elegante e raffinato, anche se non si capisce esattamente che lavoro faccia. Un giovane uomo capace di affascinare le donne con il suo distratto, ambiguo e solare stile di vita. Un tipetto dal sorriso enigmatico, che una notte, complici l’alcol e le parecchia marijuana fumata, confessa a Jong-su di avere una passione un po’ ingombrante e rischiosa. Ogni due mesi lui individua, nella campagna, una vecchia serra a cui appicca il fuoco. Poi se ne va, quando è finito tutto in cenere, lascia passare un po’ di tempo, e ricomincia.

Quando Jong-su, che promette di non rivelare nulla, confida a Ben di essersi innamorato di Hae-mi, lei scompare. E ogni affannoso tentativo di rintracciarla risulta vano. Ma il ragazzo non si arrende, comincia a ricostruire la vita, le amicizie, gli spostamenti della sua amica d’infanzia. Segue il fidanzato, lo tallona fina a quando capisce che le storie raccontate da lei avevano ben poco in comune con le bugie. E che quella ragazza con la testa piena di sogni, in realtà, potrebbe essere entrata nel gioco pericoloso di chi sa manipolare la visione delle cose con grande abilità. Anche perché nella campagna attorno alla casa dell’aspirante scrittore non c’è nessuna serra bruciata. Eppure, Ben non vuole ammetterlo.

Raccontato con un ritmo lento che diventa adrenalinico al momento giusto, pur senza mai farsi sovrastare dall’ansia di stupire a tutti i costi, recitato con grande misura ed efficacia, “Burning. L’amore brucia” sa trasformare i “Granai incendiati” di Murakami Haruki in una metafora potente  e perturbante sul vero e sul verosimile, sulla complicata convivenza tra sogni e realtà, sui molteplici inganni che si nascondono nelle parole e negli sguardi.

Portando la storia di Jong-su, Hae-mi e Ben in una Corea del Sud che vive con il ronzio nelle orecchie della propaganda folle e martellante della Corea del Nord, Lee Chang-dong rimane sin un perfetto equilibrio tra una visione metafisica e misteriosa della realtà e uno sguardo più politico, sociale, della vita dei suoi personaggi. Distillando un film sapiente e visionario, che conquista per la sua capacità di porre a chi guarda interrogativi a cui non è facile fornire una risposta.

Chissà, forse il Michelangelo Antonioni di “Blow-Up” avrebbe potuto riconoscere in questo regista sessantacinquenne un compagno di viaggio.

<Alessandro Mezzena Lona<

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