Laura Pariani è una vera macchina da romanzo. Da molto tempo, non scivola via l’annata editoriale senza che esca un suo libro nuovo. E la qualità del suo lavoro, bisogna ammetterlo, è sempre molto alta. Non solo per l’originalità delle storie che racconta, per la cura che mette nel tratteggiare i personaggi, per la precisione delle ambientazioni storiche e per la fantasia lasciata libera a inventare scenari immaginari. Ma anche per la cura attentissima della lingua. Per la capacità di cambiare registro, stile, a seconda del tempo e del luogo che sceglie. Tanto che la materia narrativa dei suoi lavori risulta sempre credibile, appassionante.
Non è per caso che la Giuria dei letterati del Premio Campiello l’ha già inserita per quattro volte nella cinquina dei finalisti. La prima volta era sul finire del Secondo millennio. Esattamente nel 1997, con “La perfezione degli elastici”. Poi nel 2003, con “L’uovo di Gertrudina” e nel 2010 con “Milano è una selva oscura. Adesso, la scrittrice di Busto Arsizio si ripresenta in laguna con un romanzo storico: “Il gioco di Santa Oca”, pubblicato da La nave di Teseo (pagg. 270, euro 18).
Se in “Di ferro e d’acciaio”, il romanzo pubblicato da Laura Pariani l’anno scorso, la scrittrice faceva rotta verso il futuro, questa volta la sua macchina del tempo ci riporta all’autunno del 1652. Quando un gruppo di uomini, stanchi di subire le angherie dei nobili, dei ricchi e dei preti, comincia a leggere il Vangelo con occhi diversi. E decide di raccogliersi, nella brughiera lombarda, intorno a uno strano personaggio: Bonaventura Mangiaterra. Uno sfuggente capopopolo che annuncia il verbo di Cristo chiamandolo la Bella Parola. Una versione pauperista e rivoluzionaria delle Sacre scritture.
Vent’anni dopo, sarà la cantastorie vagabonda Pùlvara a raccontare come l’Inquisizione riuscì a fermare Bonaventura Mangiaterra. Ma rievocando i tradimenti di un novello Giuda, aizzato dal Sant’Uffizio contro il rivoluzionario predicatore, la donna finirà per svelare la vera natura del personaggio eretico. Raccontando la propria vita e il suo coinvolgimento nel gruppo di fedelissimi dell’eretico profeta.
Per vincere il Campiello, sabato 14 settembre al Teatro La Fenice di Venezia, Laura Pariani dovrà conquistare una parte consistente dei 300 lettori che formano la giuria popolare. Sfidando fino all’ultimo voto gli altri quattro finalisti del Premio: Giulio Cavalli con “Carnaio” (Fandango Libri), Paolo Colagrande con “La vita dispari” (Einaudi), Francesco Pecoraro con “Lo stradone” (Ponte alle Grazie) e Andrea Tarabbia con “Madrigale senza suono” (Bollati Boringhieri).
“Mi piace molto cambiare, non scrivere sempre lo stesso libro – dice Laura Pariani -. Inventare personaggi nuovi, immaginare un tipo di ambientazione diversa da quella dei romanzi precedenti. Non amo essere incasellata, non voglio che mi appiccichino sopra un etichetta. Il mestiere di scrittore è bello perché ti permette di immaginare sempre nuovi mondi”.
Si è mai sentita ingabbiata in un certi cliché?
“Nei primi anni, qualcuno ha scritto che nei miei libri parlavo sempre dei contadini, oppure dei migranti. Per questo cerco sempre degli stimoli nuovi. Così cambio il passo, modifico le storie. Capita, ad esempio, che i miei romanzi pubblicati da Sellerio li scriva insieme a mio marito, Nicola Fantini. E allora lì, magari ci divertiamo a inventare storie che abbiamo anche un fondo di mistero. Come in ‘Arrivederci, signor Čajkovskij’, o in ‘Nostra signora degli scorpioni’. Credo sia molto bello che uno scrittore sappia variare”.
Che cosa l’ha portata sulle tracce del “Gioco di Santa Oca”?
“È una storia a cui pensavo da tempo. E non mi spaventava ambientare il romanzo in un passato lontano, come il 1652. Come non mi spaventava proiettare il mio libro precedente, ‘Di ferro e d’acciaio’, verso il futuro. Non per questo, come mi ha detto qualche giornalista intervistandomi, mi sottraggo al presente. Anzi, raccontando le storie si finisce per ragionare comunque sul nostro tempo”.
L’eresia, il pensare controcorrente sono ancora oggi poco accettati?
“Lo scrittore mette sempre in un libro la propria visione del mondo. A me non interessa l’autofiction, l’autobiografia mascherata da romanzo. Per esempio, Bonaventura Mangiaterra porta il lettore a prendere in considerazione non solo i problemi dei contadini, dei poveri di quel tempo, delle vessazioni fatte contro di loro dai nobili e dalla Chiesa. Ma spinge a riflettere sul fatto che il mondo, in realtà, non è mai cambiato. Che certi equilibri sociali sono sempre uguali”.
Ma Bonaventura Mangiaterra è un personaggio d’invenzione?
“Non c’è traccia del suo nome nei documenti dell’epoca. Però io mi sono riferita alle tante storie vere di contadini, di poveri nel Canton Ticino, nella Lombardia manzoniana, che si ribellavano leggendo il Vangelo, la Bella Parola, come un messaggio di liberazione e di rivolta contro le ingiustizie. Contro le decime alla Chiesa, i troppo balzelli, il lavoro massacrante. E tra le vicende di streghe e personaggi ambigui, non mancano quelle che raccontano di donne che vivevano la loro esistenza come se fossero maschi. E che poi, scoperte, finivano al rogo perché sospettate di commercio con il diavolo, con il Male. Ecco, questo Cristianesimo eretico, che finiva soffocato dl Sant’Uffizio, mi interessa molto”.
La Bella Parola è ancora attualissima?
“La lettura del Vangelo come messaggio a favore dei poveri, di chi non ha diritti, è sempre attuale. Dalla rivolta dei contadini in Germania ai tempi di Lutero fino alle critiche che ancora oggi piovono sulla Chiesa, sui cardinali”.
Ma al colpo di scena finale, all’incerta identità del profeta eretico, quando ci è arrivata?
“Subito. Anni fa ho scritto per Sellerio un racconto intitolato ‘Il pettine’. Lì c’era una storia ambientata nel 1636 con la vicenda di una bambina costretta a diventare maschio, per essere salvata. Ecco, ‘Il gioco di Santa Oca’ è il compimento, in un certo senso, di quella storia”.
Ogni suo libro ha un registra linguistico diverso. Come fa?
“Il lavoro sulla lingua dei miei libri è faticoso, ma al tempo stesso entusiasmante. Proprio perché puoi trovare sempre il tono, il registro giusto per il tempo storico che racconti, per i personaggi che inventi. Bisogna lasciare che l’immaginazione vada libera, pur senza dimenticare la lezione della tradizione. Per esempio, nella letteratura lombarda c’è tutta una linea di scrittori, molto interessante, non in accordo con Alessandro Manzoni. Penso alla tradizione in dialetto di Carlo Porta, quella che mescola italiano e parlata popolare di Delio Tessa, o di Giovanni Testori. C’è Dario Fo che inventa addirittura le lingue. La Scapigliatura che ha portato regionalismi dentro la lingua nazionale”.
Ha iniziato dal fumetto, dalla pittura. Pratica ancora questi generi di creatività?
“Non ho mai smesso di dipingere. Quando scrivo, disegno i miei personaggi, così riesco a concentrarmi meglio. Il tratteggiarli, ni permette di immaginare il loro viso, il corpo, come si muovono, i dettagli. Non credo di essere l’unico scrittore che lo fa. Anzi, ci sono stati anche illustri miei predecessori”.
E il cinema? Aveva iniziato collaborando con Gianni Amelio per “Così ridevano”, Leone d’oro a Venezia nel 1998…
“Il cinema è un mondo molto complicato. Il lavoro dello scrittore è solitario, per fare un film devono interagire molte persone. Diventa tutto faticoso, e poi girano parecchi soldi. E se vogliamo essere sinceri, quando si va al cinema nessuno si chiede chi abbia scritto la storia”.
Quattro volte finalista al Campiello. Non è il caso di vincerlo?
“Mi piacerebbe molto. Anche perché non so se avrò altre occasioni di salire sul palco della Fenice. La prima volta sono entrata in finale nel 1998. Sono passati 21 anni. Però la cosa più importante è che le diverse giurie abbiano riconosciuto che il mio lavoro di scrittrice va nella direzione giusta”.
Almeno, questa volta, non deve chiedere un permesso alla preside…
“Infatti, mi risparmio almeno quello. Perché la prima volta che sono entrata in finale al Campiello, la preside mi ha detto: ‘Le concedo il permesso di andare, ma che non si ripeta più’. Adesso rido, allora un po’ meno”.
<Alessandro Mezzena Lona<