• 03/09/2019

Paolo Colagrande: “Siamo imperfetti, ma chi lo ammette?”

Paolo Colagrande: “Siamo imperfetti, ma chi lo ammette?”

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Un Campiello l’ha vinto, 12 anni fa. Quello assegnato alla migliore Opera Prima, con il romanzo “Fideg”. Da allora, Paolo Colagrande non ha mai smesso di sognare che un giorno il Premio vero, quello che ogni anno seleziona i cinque migliori libri pubblicati nel corso della stagione letteraria, sarebbe stato suo. Ci è andato vicino nel 2015, con “Senti le rane”. E quest’anno di riprova con un romanzo originalissimo. Un termitaio di storie che fanno pensare e sorridere.

Ne “La vita dispari”, pubblicato da Einaudi (pagg. 283, euro 19,50), Paolo Colagrande racconta la vita di uno strano personaggio come se, a ogni capitolo, si accendessero tra le pagine dei fuochi d’artificio. Di colori diversi, ma sempre pronti a stupire per le trovate narrative, per le soluzioni linguistiche, talvolta ardite e interessantissime. Fatte di un impasto originale tra lingua “alta” e parlata popolare.

Buttarelli, questo il nome del protagonista, è un ragazzo che si scontra subito con le regole rigide del vivere nel mondo. Perché lui ha una visione delle cose fatta a metà. Riesce a leggere solo le pagine pari di un libro, mentre quelle dispari, per lui, non esistono proprio. E si relaziona con le altre persone, i compagni di scuola prima, i professori e la preside,  i pochi amici che gli restano poi, come se quella faccia della realtà, che lui non può vedere, non esistesse proprio. Questa anomala prospettiva lo porterà a intessere otto storie d’amore con otto ragazze diverse, in contemporanea, a sposare un’impiegata destinata a fare una carriera fulminea e inarrestabile. A promettersi in sposo a una ragazza, forse più ingenua che profittatrice, pur sapendo di essere già sposato.

La sua vita, all’apparenza potrebbe rientrare nel novero di quelle senza importanza. Pronte a scivolare via rapidamente dalla memoria. Però, un giorno, Buttarelli scompare. Dopo aver fatto suo lo strampalato progetto del suo idealista, visionario e indolente amico Bioli. E, allora, entra in scena una sorta di autoproclamato biografo ufficiale: il suo amico nullafacente Gualtieri. Che finirà per rievocare i passaggi salienti di quella “Vita dispari” in modo del tutto arbitrario e personale.

Sabato 14 settembre, Paolo Colagrande vivrà da protagonista al Teatro La Fenice la serata finale del Campiello. A contendergli il Premio saranno Giulio Cavalli con il romanzo “Carnaio” (Fandango Libri), Laura Pariani con “Il gioco dio Santa Oca” (La Nave di Teseo), Francesco Pecoraro con “Lo stradone” (Ponte alle Grazie) e Andrea Tarabbia con “Madrigale senza suono” (Bollati Boringhieri).

“Non mi ispiro mai a persone conosciute, a figure vere, quando scrivo – spiega Paolo Colagrande, emiliano di Piacenza, che ha pubblicato anche i romanzi ‘Kammerspiel’ e “Dioblú’ -. I miei personaggi sono una sintesi di caratteristiche, di qualità e difetti, presi qua e là. Che mi servono, poi, a dare un’identità più precisa alla figura che voglio raccontare. Qualcuno ha detto che chi scrive vivendo nella zona della via Emilia è condizionato dalla nebbia. Io non sono affezionato a queste connotazioni geografiche. Forse valgono di più per prodotti come vino, formaggi, salame. Però c’è qualcosa di vero. E mi fa venire in mente una scena di un film di Federico Fellini”.

La vuole raccontare?

“C’è un vecchio perso nella nebbia. Tanto che crede di essere morto, perché non si ritrova più. E gli viene da pensare che se la morte è davvero quella, non c’è proprio da stare allegri. Poi, gli si avvicina il cocchiere di una carrozza e gli dice: guarda che casa tua è lì, a dieci metri da te. Ecco, la nebbia è così: finisci per perderti se non viene qualcuno in tuo soccorso. Perché ci vogliono i i punti di riferimento umani. Quelli che piacciono di più a me quando scrivo. Il mondo in cui li faccio muovere è un terreno sconfinato invaso dalla nebbia”.

“La vita dispari” è un romanzo sulla difficoltà di raccontare le persone?

“Sì, perché noi consideriamo le persone come un intero. Ma di loro, quando proviamo a raccontarle, riusciamo a elaborare solo una piccola parte. Il mio protagonista, Buttarelli, vede solo una metà delle cose. Per lui, è come se il mondo fosse separato da una linea verticale, che lo spacca in due. Ogni cosa è la metà di un intero. Il nostro mondo si illude di sapere tutto, ma il nostro cervello è governato da un meccanismo selettivo molto arbitrario. Ne ‘La pecora nera’ di Israel Joshua Singer. l’incipit dice proprio che per una vita il nostro cervello seleziona delle immagini, magari insignificanti, ed esclude tutto il resto, perché non ha interesse a trattenerle”.

Buttarelli è un uomo che vede a metà, ma comunque vive?

“Lui è sempre alla ricerca dell’altra metà. Perché tutti gli dicono che esiste, anche se lui poi non la vede. A me, poi, sembrava bello mettere in campo questo personaggio e farlo raccontare da un narratore, il suo amico nullafacente Gualtieri. Per vedere come, e se, possono combinare le loro versioni così diverse”.

Il suo protagonista è un elogio dell’imperfezione?

“Oppure, una presa d’atto. Se fossimo perfetti, credo che risulteremmo davvero noiosissimi. E, allora, bisogna ringraziare la nostra incompletezza. Perché se quando non capiamo qualcosa non ce lo inventassimo, finiremmo per annullare la nostra forza creativa. E poi, se il nostro modo di interpretare la realtà fosse perfetto, allora sì che ci avvicineremmo all’immagine di Dio. Questo è un tema che, nel romanzo, ho voluto trattare in maniera un po’ cialtronesca”.

Il personaggio di Bioli: grandi ideali, ma poca capacità di intervento?

“In fondo, Bioli è un puro. Un inutile inetto. E forse è questa sua eccessiva purezza, complicata da una visione delle cose troppo radicate, a portarlo a sposare degli ideali che poi, inesorabilmente, precipitano. Anche se in realtà, sarà lui a procurare a Buttarelli, dalla sua inutile quotidianità, l’occasione per dare una svolta alla vita”.

Nei suoi libri c’è sempre un registro grottesco. Potremmo dire comico?

“È una comicità senza strategia, dal momento che è connaturata alla nostra stessa natura. Sono convinto, infatti, che siamo tutti fisiologicamente comici. Perché siamo legati a una crisi originale: quella di dover vivere su un pianeta che non è stato creato a nostra misura. E, invece, noi ci illudiamo di essere la misura di tutte le cose. Questo cortocircuito, del tutto involontario, finisce per generare comicità. Che non è spiritosaggine, ma capacità di sorridere e ridere sui nostri difetti di fabbrica. Questo è l’aspetto che, alla fine, ci rende interessanti”.

Nel suo albero genealogico letterario chi metterebbe?

“Non vorrei partire dal grande romanzo ottocentesco, dai russi. Dirò solo, alla rinfusa, chi mi ha accompagnato nel salto dalla lettura alla scrittura. Per esempio, Luigi Malerba, ma anche Antonio Delfini, Silvio D’Arzo, Giuseppe Berto. Illuminante è stata la lettura di Elias Canetti, di Romain Gary, che ho scoperto una ventina d’anni fa. Adesso la casa editrice Neri Pozza sta ripubblicando, con grande merito, le sue opere. Dovrei ricordare anche i fratelli Isaac e Israel Singer, ma anche gli illuminanti “Gargantua e Pantagruele” di François Rabelais, “Buvard e Pécuchet” di Gustave Flaubert, “Don Chisciotte” di Miguel de Cervantes, “Orlando furioso” di Ludovico Ariosto. Non posso dimenticare i miei compagni di gioco letterario: Ermanno Cavazzoni, Ugo Cornia, Paolo Nori. Aggiungerei Gianni Celati chiamandolo maestro, anche se lui rifiuterebbe questo titolo. Lo considero uno dei massimi scrittori viventi”.

Dopo il Campiello Opera Prima è entrato due volte nella cinquina dei finalisti. Adesso lo vince lei il Premio?

“Bisognerebbe convincere la giuria popolare. Trecento persone che possono essere anche non lettori, o appassionatissimi di letteratura e molto critici. Credo sia impossibile fare previsioni. Vero è che il Campiello è sempre una bella esperienza. Uno spazio prezioso per gli autori, per i libri, grazie alla filosofia stessa che governa il Premio. Perché ogni anno si fa un po’ un bilancio letterario dei migliori romanzi usciti. E non si pensa, invece, ad assecondare politiche editoriali o interessi legati soprattutto alle vendite”.

Ma c’è tempo, per chi scrive, di coltivare altre passioni?

“La scrittura richiede impegno intellettuale, e anche fisico. Quando si finisce un libro, di solito si pensa già a quello successivo. Anche perché gli intervalli vuoti, i momenti senza idee, fanno insorgere ansia. Ovviamente, poi, c’è spazio per la famiglia, per un lavoro magari fatto senza grande amore”.

Lei è avvocato?

“Lo faccio sempre meno, senza passione né vocazione. I miei genitori erano professori universitari, in ambito scientifico, e desideravano che mi creassi una professione considerata da loro seria”.

Ma una maratona la correrebbe?

“Ho una grande passione per la corsa. Fino a quando ho vinto il Campiello Opera Prima mi allenavo e correvo i 42 chilometri, la distanza della maratona. Adesso sono 12 anni che ho quasi smesso, anche perché ho avuto problemi seri ai tendini. In compenso ho passato ai miei figli la passione per la musica”.

Ama la musica?

“Ho studiato pianoforte. Avrei voluto fare il concertista, però i miei genitori non erano d’accordo. Mi chiedevano: poi cosa andrai a fare? Molto meglio intraprendere la professione dell’avvocato, secondo loro. Ecco, io dico ai miei figli esattamente le cose al contrario. Ovvero: fate tutto quello che volete, ma non gli avvocati”.

<Alessandro Mezzena Lona<

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