• 15/03/2020

Jan Brokken e quei “Giusti” che piacciono a Spielberg

Jan Brokken e quei “Giusti” che piacciono a Spielberg

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Una storia così non poteva lasciare indifferente Steven Spielberg. Infatti, il regista di”Schindler’s List” ha confessato più volte: “Se avessi conosciuto la storia di Jan Zwartendijk un po’ di tempo fa, mi sarebbe piaciuto di certo dedicarle un film”. Ma chi sapeva niente prima che Jan Brokken si mettesse sulle tracce del console onorario olandese a Kaunas? Chi aveva mai sentito parlare di questo oscuro direttore della filiale Philips nella città della Lituania, che è morto senza avere nemmeno la soddisfazione di conoscere il destino delle migliaia di ebrei scappati dalla furia del nazismo grazie ai visti rilasciati proprio da lui?

Ci voleva uno scrittore come Jan Brokken per ritrovare la storia perduta di Jan Zwanterdijk. Un cacciatore di destini dimenticati come l’autore di Leida. Un viaggiatore instancabile, un segugio mai contento delle informazioni raccolte, un curioso che non smette di interrogare i documenti, le testimonianze, per riportare in vita, grazie a una scrittura precisa e godibilissima, vicende sparite da troppo tempo dall’orizzonte della memoria.

Così, dopo aver conquistato il pubblico di mezzo mondo raccontando in “Jungle Rudy” il leggendario avventuriero Rudy Truffino, che si innamorò della Gran Sabana in Venezuela fino a diventarne il simbolo stesso, dopo aver ritrovato il filo rosso che lega personaggi come Hannah Arendt, Romain Gary, Gidon Kremer nel suo capolavoro “Anime baltiche”, dopo aver saputo dare voce alla grande anima russa, in “Bagliori a San Pietroburgo”, e aver riportato in vita un gigante come “Fedor Dostoevskij nel “Giardino dei cosacchi” e l’inimitabile pianista “maledetto” Youri Egorov nella “Casa del pianista”, Jan Brokken è riuscito a togliere dalla polvere dell’oblio un’altra storia straordinaria. Un altro personaggio capace di riempire un libro di oltre 600 pagine. Quel Jan Zwartendijk che racconta nel suo straordinario saggio narrativo “I giusti” tradotto, con estrema cura, da Claudia Cozzi per la sempre ammirevole casa editrice Iperborea (pagg. 638, euro 19,50).

In realtà, “I giusti” non è soltanto un viaggio alla ricerca di un personaggio dimenticato. No, perché Jan Brokken non si accontenta, in questo libro come nei suoi precedenti, di svolgere il compitino che la sua stessa curiosità gli ha assegnato. Chiudere il testo con le prime informazioni che gli capitano a tiro e finirla là. No, questo è un viaggio dentro l’Europa che corre incontro alla Seconda guerra mondiale senza rendersi conto che, dopo, nulla potrà mai ritornare com’era a prima. È una messa a fuoco precisa e impietosa dell’avanzare a passo di carica delle armate naziste fino al cuore dell’Unione Sovietica. Ma è, soprattutto, il racconto di persone piccole, spesso insignificanti, dotate di un minuscolo potere, che fanno del principio “chi salva una vita salva il mondo intero” il proprio imperativo categorico. Per non arrendersi a quegli anni terribili.

Così, capita che un signore olandese di come Jan Zwartendijk venga nominato direttore della filiale lituana della Philips, il colosso elettronico nato ad Eindhoven nel 1891. E, subito dopo, si ritrovi sulle spalle anche il compito di sostituire il console onorario nella città di Kaunas, perché troppo filo nazista. Proprio nel 1940, quando l’Europa si trova prigioniera dell’avanzata inarrestabile delle truppe di Adolf Hitler. E di lì a poco, ondate di ebrei dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia si riverseranno in Lituania, l’unico Paese vicino che acconsentiva ancora di accogliere i profughi.

Nessuno, però, può illudersi che Kaunas e la Lituania rimangano a lungo roccaforti di libertà e rispetto dei diritto umani. Le truppe sovietiche premono al confine, e dopo poco invadono il Paese, imponendo un nuovo governo comunista e avviando verso la Siberia tutti i nazionalisti lituani. Jan Zwartendijk capisce subito che, di lì a poco, comincerà la caccia all’ebreo anche a due passi da casa sua. Di lì a qualche mese, gli stessi attivisti lituani dei partiti filonazisti metteranno a segno un vero e proprio bagno di sangue. Quello che ancora oggi viene ricordato come il massacro del garage Lietūkis. Dove, nella notte tra il 25 e il 26 giugno del 1941 vennero massacrati a bastonate 1500 ebrei. E altri 2300 morirono tra il 26 e il 27 giugno.

Senza porsi troppe domande, Jan Zwartendijk, di nascosto da tutti, comincia a rilasciare agli ebrei in fuga visti consolari che consentano loro di attraversare l’Unione Sovietica, passare in Giappone e cercare di raggiungere le Indie olandesi. Per questo verrà soprannominato “l’angelo di Curaçao”. E per molti anni sarà ricordato solo con questo nome. Nello stesso periodo, anche il console giapponese Chiune Sugihara non smette un attimo di redigere i documenti di espatrio per intere famiglie in fuga. Molte delle persone da lui salvate riusciranno, viaggiando sulla Transiberiana, ad arrivare fino a Kōbe. E a trovare, poi, rifugio nell’enorme ghetto cosmopolita di Shanghai.

Fuggivano da Hitler, gli ebrei rifugiati in Lituania, ben sapendo che non potevano contare nemmeno sull’appoggio di Stalin. Il “piccolo padre” non si era mai fidato di quel popolo nomade, senza un Paese che fosse l loro vera patria. Tanto che cercò di creare una Regione Autonoma Ebraica, nell’Urss, dove ammassarli tutti, togliendoli dal contatto diretto con il resto della popolazione sovietica. Racconta Jan Brokken, poi, che il passaggio sulla Transiberiana non era un atto umanitario da parte del Potere comunista. Anzi, fruttò un consistente guadagno. Qualcosa come due milioni e seicentomila dollari, visto che ogni viaggiatore doveva sborsarne 400 di dollari per assicurarsi un biglietto.

Senza mai conoscersi o incontrarsi, ma uniti da una sintonia umana più forte dell’amicizia, Zwartendijk e Sugihara riuscirono a far scappare, e quindi a salvare, migliaia di ebrei. Una ricerca ha stabilito che il 95 per cento di loro riuscirono a sfuggire alla Shoah e si rifecero una vita lontano dall’Europa. Eppure, i due “Giusti” raccontati da Jan Brokken hanno dovuto aspettare un bel po’ prima di essere riconosciuti non soltanto da Israele, che gli ha inseriti tra i Giusti fra le Nazioni, con l’onorificenza conferita dal Memoriale ufficiale Yad Vashem, ma dal mondo intero. Tanto che il consolo onorario olandese è morto nel 1976, a ottant’anni, con l’amaro cruccio di non sapere quanti dei suoi protetti fossero riusciti in realtà a sottrarsi all’Olocausto.

Ma il grande fascino de “I giusti” va ben al di là delle storie di Jan Zwartendijk e Chiune Sugihara. Ascoltando le testimonianze dei figli, di chi li ha conosciuti, di alcuni ebrei sopravvissuti, passando al setaccio gli archivi, ricostruendo con scrupolosa precisione la Storia e le storie di quegli anni, Jan Brokken consegna ai lettori un libro che è, insieme, uno straordinario affresco dell’Europa degli anni Quaranta e un romanzo dal ritmo incalzante. Che, a tratti, fa tenere il fiato sospeso. Perché i due ambasciatori, le loro famiglie, e tutti quelli che li aiutavano in silenzio dall’interno della struttura del corpo consolare, rischiavano dio essere spazzati via da un momento all’altro.

Da questo gigantesco mosaico di destini, che Jan Brokken ha messo assieme potendo contare su fonti e testimonianze così ramificate da richiedere una trentina di pagine del libro per citarle tutte, emerge il ritratto limpido di una delle più grandi e misconosciute operazioni di salvataggio umano del Ventesimo secolo. Ma prende forma anche una domanda che lo scrittore olandese, giustamente paragonato a due grandi come Graham Greene e Bruce Chatwin, trattiene nella penna. Pur lasciandola aleggiare lungo il corso dell’intero racconto. Oggi, due piccoli funzionari come Zwartendijk e Sugihara troverebbero ancora il coraggio di ribellarsi alla follia del Potere con così silenziosa e incrollabile forza?

<Alessandro Mezzena Lona<

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