• 17/11/2017

Jan Brokken: “Credo nella letteratura e nella musica”

Jan Brokken: “Credo nella letteratura e nella musica”

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Nella letteratura ha trovato la via. Nella musica il codice giusto per sintonizzarsi con la propria anima. Ma Jan Brokken è convinto che, senza il viaggio, non avrebbe capito niente della vita, degli scrittori, dei compositori e di se stesso. Per questo, chiacchierando su “Bagliori su San Pietroburgo”, il suo libro più recente tradotto da Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo per Iperborea, ma anche su “Anime baltiche” e “Nella casa del pianista, il grande scrittore e viaggiatore olandese non esita a dire che è proprio quella la strada più utile e più breve per arrivare a se stessi.

Invitato a Milano, dove sarà protagonista sabato 18 alle 14 nel Salone d’onore della Triennale nell’ambito di Bookcity, Jan Brokken è uno di quegli autori che ti incatena alla pagina dalla prima riga e non ti molla fino a quando non ha finito di raccontare la sua storia. O meglio, fino a quando non ha terminato di dipanare il suo gomitolo di destini, aneddoti, rivelazioni, retroscena, emozioni, che hanno dato vita a oltre una trentina di libri. Solo quattro, per il momento, sono apparsi nelle librerie italiane, ma grazie alla tenacia e all’intelligenza della casa editrice Iperborea a giugno arriverò anche la traduzione di “Jungle Rudy”. Il suo primo successo internazionale.
“Mio padre era un pastore protestante – spiega Jan Brokken, che quando parla ricrea quell’atmosfera colloquiale, eppure densa di informazioni, ragionamenti, emozioni, che rende i suoi libri irrinunciabili viaggi di carta -, sapeva ascoltare la gente. Io ho imparato da lui: non mi interessano tanto le mie opinioni. Non mi fido di quello che penso io. Preferisco ascoltare i ragionamenti degli altri. Ascoltare, per esempio, storie come quella del libraio Jānis Roze, di cui parlo in ‘Anime baltiche’ , mi è è servita tantissimo. Mi ha cambiato dentro”.

Perché?

“Il figlio di Roze, professore di Economia, è riuscito ad aprirmi gli occhi. Ho passato 14 giorni a girare, a parlare con lui.  Mi ha spiegato che cosa è successo dopo il crollo del Muro di Berlino. Che cosa è successo in Paesi come Lettonia, Lituania, Estonia. Ho scoperto, così, il ruolo che la mafia aveva e ha tuttora nella gestione di questi Paesi”.

Saper ascoltare apre la strada alla conoscenza?

“Io ho imparato a capire il mondo attraverso gli occhi delle persone che incontro. Cerco di immaginarlo attraverso le parole di chi racconta. Così, sono riuscito a visualizzare, e poi a descrivere, il passaggio epocale dal comunismo ortodosso al capitalismo più sfrenato”.

Dove nasce tanto interesse, un amore così grande per le “anime baltiche”, per la Russia e dintorni?

“La famiglia di mia madre era russa. Ma questo, forse, non conta tanto. Io credo che lei mi ha spalancato il mondo fantastico della letteratura russa quand’ero ancora un ragazzo. A 15 anni mi ha colpito una grave malattia, costringendomi a letto per un periodo lunghissimo. Vedevo solo luci e ombre, avevo gli occhi sbarrati. Dovevo stare disteso anche per dieci giorni di fila. Lei, temendo che impazzissi, ha cominciato a leggere per me. Soprattutto romanzi russi. È partita dai racconti di Puškin e Čechov, per passare poi a storie più lunghe come ‘Anna Karenina” di Tolstoj e ‘Dottor Zivago” di Pasternak. Il più bello in assoluto, diceva, era ‘Guerra e pace’. Al contrario, ha tentato di tenermi lontano da Dostoevskij in quel momento. Pensava che sarebbe stato pericoloso addentrarmi nel suo mondo mentre soffrivo così tanto. Infatti, l’ho scoperto molto tempo dopo, appena a 22 anni”.

Una famiglia davvero speciale la sua…

“I miei genitori sono arrivati in Olanda dall’Indonesia, proprio quando sono nato io. Mio padre aveva studiato teologia, specializzandosi sull’Islam. Così la mia famiglia si era trasferita dall’Europa laggiù per permettere a lui di approfondire le sue ricerche. In realtà, mia madre si era spinta ancora più in là, imparando a parlare il makassar, una lingua di tipo giavanese che per la scrittura utilizza i caratteri arabi. A volte dico che i “Bagliori su San Pietroburgo’ l’ho scritto come fosse un dialogo con lei, che è morta ormai da molto tempo”.

Quanto ha pesato avere un padre pastore protestante?

“Papà mi ha insegnato che esistono tante religioni, non una sola. Lo stesso diceva per la cultura. Lui amava tantissimo leggere, nel mondo dei libri si sentiva a casa. Mia madre, invece, era un grande talento musicale. Una fantastica pianista: suonava Chopin la sera, Schubert al pomeriggio, adorava Mozart. Ovviamente, in chiesa si dedicava più a Bach e a cantare nel coro. Infatti, i miei due fratelli sono pianisti. E io considero la musica come uno dei centri di gravità della mia vita. Non soltanto la classica, Rachmaninov, Šostakovič, perché fin da ragazzo ho amato anche John Mayall, The Who, Doors”.

Sarebbe diventato uno scrittore senza viaggiare?

“Impossibile. Viaggiare, leggere, ascoltare sono i tre punti cardinali del mio essere scrittore. Due mesi fa sono stato ricoverato in una clinica per un problema di salute. Ho temuto addirittura di diventare cieco, come Jorge Luis Borges. E la cosa che mi spaventava di più non era il fatto di restare per sempre al buio, ma la convinzione che se non vedi le persone, i loro volti, le espressioni, i gesti che fanno, non riesci a capire bene nemmeno quello che ti raccontano. Con la vista si sarebbe spenta anche la mia scrittura”.

A che età si è sentito abitato dal desiderio di scrivere?

“Molto presto. Avevo otto anni. Mio padre, studiava, lavorava tanto in casa. In Olanda il tempo era molto spesso pessimo, quindi io ero chiuso dentro insieme a lui. Così ho cominciato a chiedergli dei fogli per scrivere piccolo storie tutte mie. Per far passare le ore. I miei primi racconti erano molto simili a delle fiabe. Poi, a 11 anni sono andato a trovare una zia nella parte centrale del Paese. Di quel piccolo viaggio, per me allora lunghissimo e pieno di fascino, ho cominciato ad annotare tutto in un diario. Tre, quattro anni fa un editore mi ha chiesto di scrivere un libro su quella zona, e io mi sono ricordato di quel diario dettagliatissimo. Sono andato a cercarlo e ho scoperto che descriveva  già in maniera precisa i luoghi, le foreste, i rapporti con mia cugina, tutte le cose più strane e curiose”.

Una sorta di predestinazione?

“Direi proprio di sì. Io non ho scelto la scrittura, è lei che ha cercato me. Mi ha trovato, mi ha posseduto. Quando avevo 12 anni mio fratello si è fidanzato con una ragazza danese, e noi siamo andati verso un nuovo viaggio, descritto anche quello in un diario. Poi a 15 anni sono partito con un amico, in bicicletta, per raggiungere le Ardenne. Ancora oggi ricordo l’emozione, il brivido per quell’avventura. Ma anche il fatto che io descrivevo in maniera dettagliata l’incapacità del mio compagno di accettare la morte della madre, avvenuta poco tempo prima”.

Già allora riusciva a dare voce agli altri, a mettere a fuoco le diverse facce della loro storia…

“Potrei dire che l’attenzione che allora dedicavo al mio amico depresso, più tardi l’ho virata verso personaggi interessantissimi, come il regista Sergej Ejzenštejn. Raccontando, per esempio, quanto nel suo guardare con disprezzo Kerenskij e il governo provvisorio dopo la caduta dello zar ci fosse vivissimo, in realtà, il ricordo del non amore provato per il padre. Del fastidio covato da bambino per la sua passione smodata nei confronti delle scarpe”.

I romanzi, la poesia, non sono solo il suo mondo, ma qualcosa di più…

“La letteratura, la musica mi danno ancora di più della religione. Perché mi regalano una vita normale e un’altra vita, interiore. Ti portano a credere, per esempio mentre ascolti la ‘Passione secondo Matteo” di Bach, che sopra di noi ci sia puro amore. Quello che i credenti chiamano Dio. La poesia, la voglia di scrivere romanzi, di comporre sinfonie, hanno fatto sì che in Russia, a San Pietroburgo, il materialismo imposto dal regime comunista non avesse partita vinta. Non ha permesso che scendesse il silenzio sulla voce di Anna Achmatova, una donna che ha portato su di sé, dentro di sé, il peso immenso delle persecuzioni politiche, dei morti nelle carceri e nei gulag. Scrivendo versi ancora oggi commoventi e altissimi”.

E ancora non è finita?

“La Russia non ha mai conosciuto la vera libertà. Solo la letteratura ha saputo elevarsi al di sopra della barbarie. Possiamo tranquillamente dire che stati gli scrittori, i poeti, i musicisti a incarnare il Parlamento democratico. Da Dostoevskij a Solzenicyn fino ad arrivare al Premio Nobel Aleksievic”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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