Il Premio Nobel non ha spazzato via molti pregiudizi, quando si parla di Alice Munro. Il primo batte e ribatte sulla facile difficoltà dei testi letterari dell’autrice canadese di Wingham. Si lascia intendere, cioè, che proprio la struttura delle sue storie sia troppo aderente alla routine quotidiana, alla vita raccontata in maniera orizzontale, e poi complicata da uno stile macchinoso, reso zoppicante da reiterati flashback, spesso oscuro ad arte. Il secondo luogo comune punta il dito sulla forma letteraria scelta dalla narratrice, acclamata dall’Accademia di Svezia nel 2013. Come se scrivere racconti fosse un’inconscia ammissione dell’incapacità di confrontarsi con il romanzo.
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Pregiudizi, appunto. Che non hanno impedito, per fortuna, alla giuria del Nobel di riconoscere in Alice Munro una delle grandi voci della letteratura contemporanea. Ma per capire quanto valore abbiano i testi della scrittrice canadese, e quanto sbaglino i suoi detrattori nell’alzare il sopracciglio mentre leggono i numerosi racconti da lei pubblicati in una carriera che ha mosso i primi passi nel 1968, si può andare a esaminare con attenzione uno dei libri più belli e complessi. Pubblicato nel 1998 con il titolo “The love of a good woman”, e tradotto poi da Susanna Basso nel 2001 per Einaudi (pagg. 365, euro 17,50) è composto da sette testi.
L’edizione originale prende il titolo dal primo racconto, “Una donna di cuore”, mentre quella italiana ha deciso di puntare sulla storia che chiude il volume: “Il sogno di mia madre”.
Entrambi i racconti mettono subito in evidenza un aspetto caratteristico, che è anche punto di forza, della scrittura di Alice Munro. Sì, perché le due storie partono concentrando lo sguardo su particolari che, all’apparenza, sembrano del tutto generici. “Una donna di cuore”, per esempio, dedica tutto il primo capitolo a descrivere un bizzarro, e pretenzioso, museo di Walley. Dove, in mezzo a fotografie, zangole da burro, finimenti per cavalli, una vecchia poltrona dentistica, spunta una scatola. Apparteneva al dottor Willens, specialista in optometria. Contiene i suoi strumenti di lavoro medico.
E già qui qualcuno potrebbe chiedersi perché Alice Munro si dilunghi nel descrivere oggetti e luoghi che sembrano ininfluenti per portare avanti la storia. Anche perché, subito dopo, la scrittrice ritorna a ritroso nel tempo. E si ferma in un posto chiamato Jutland, dove un gruppo di ragazzini scopre in un’ansa del fiume una macchina sommersa dall’acqua con un corpo all’interno, ormai privo di vita.
Attenzione a non farsi ingannare dalla straordinaria capacità di scrittura dell’autrice canadese. Perché è proprio lì, in quei dettagli all’apparenza coreografici, in quelle descrizioni che possono sembrare come ottimi esercizi di stile, che Alice Munro nasconde la chiave indispensabile per orientarsi nella storia. Solo più in là nel racconto, infatti, farà capire ai lettori che il morto era proprio il dottor Willens.
Ma non è ancora il momento di approfondire il personaggio di Willens, di come sia morto affogato nel fiume. Perché Alice Munro, con un nuovo cambio di fronte, passa a concentrarsi sulle disgrazie della signora Quinn. E sul grande lavoro di assistenza che fa, al letto della malata, la giovane, scrupolosissima, un po’ anonima, infermiera Enid.
Ecco, verrebbe voglia di distrarsi un po’. Di lasciarsi portare dalla capacità affabulatoria di Alice Munro senza fare troppa attenzione ai dettagli della storia. Ma sarebbe un errore gravissimo. Perché è proprio nell’intreccio di vicende così apparentemente slegate tra loro che sta la chiave di un segreto sepolto sotto tonnellate di silenzio e di perbenismo dalla brava e buona gente della provincia canadese. Che, a guardarla bene, finisce per assomigliare a quella che abita ogni provincia sparsa nel mondo.
Stessa struttura, ma scenario diverso, per “Il sogno di mia madre”. Qui Alice Munro prende come spunto d’avvio del suo racconto una nevicata. Non una tempesta qualunque, ma una bufera di fiocchi del tutto inaspettata. Visto che si propone in una giornata d’estate. Ed è lì, in uno scenario in apparenza così intimo che, piano piano, la scrittrice mette a fuoco la storia di Jill. Una ragazza diventata mamma troppo in fretta, e rimasta vedova senza sapere assolutamente che farsene delle proprie giornate di mediocre violinista. Una giovane donna che si troverà a vivere le contraddizioni della maternità all’interno della squinternata famiglia del marito defunto. Passando lei per mamma del tutto incapace di far crescere la sua bambina. Colpevolizzata da Iona, la zia pronta a sostituirla nel ruolo materno solo per mascherare un suo perturbante desiderio di esprimere la propria mai valorizzata femminilità.
Non c’è niente di più sorprendente, complicato e oscuro della vita di ogni giorno. Ed è per questo che Alice Munro non ha bisogno di inventare storie iperboliche. Le basta immaginare specchiarsi nella realtà. Immaginare una coppia. Un uomo e una donna incapaci di confessarsi la propria quieta insoddisfazione. Quel desiderio di mollare tutto. Non per sempre. Magari solo fino a ritrovare almeno una parte di se stessi. Come succede alla protagonista de “Le bambine restano”, quando decide di abbandonare la famiglie per seguire Jeffrey. Un teatrante da quattro soldi. Un Orfeo che qualche Euridice annoiata potrebbe scambiare per il principe azzurro. Ma che, in realtà, si rivelerà solo “uno con cui sono vissuta per un po’”.
Gli uomini non sono mai al centro dei racconti di Alice Munro. Sono figure secondarie, marginali, spesso evanescenti, ma pur sempre animate da una brama di comando e di protagonismo. Brian non fa nulla per fermare sua moglie ne “Le bambine restano”. Più per ignavia che per convinzione che sia giusto concederle una pausa di riflessione. E quel suo intimarle al telefono che, comunque, le “bambine restano” non servirà soltanto a farle capire che, in un’ipotetica causa di divorzio, non cederà mai la cura delle figlie a lei. Ma che, al di là del rapporto d’amore ormai esaurito tra loro due, Caitlin e Mara saranno lì ad aspettare per sempre che ritorni.
Interessante notare come Eve, la madre di “Salvate il mietitore”, l’ex attrice che non ha saputo trovare un uomo così interessante da trattenerlo accanto a sé, scopra all’improvviso, in una circostanza del tutto casuale e foriera di possibili pericoli per lei e per i nipoti, quanto fascino carnale possa emanare una ragazza alla deriva, vestita di stracci sporchi e indecisa su che farsene della propria vita. Anche se il mondo maschile, a volte, può custodire segreti sorprendenti e inaspettati. Come scopre in “Prima che tutto cambi” la figlia di un medico che, per tutta la vita, ha procurato aborti clandestini a ragazze in difficoltà. Ma che, in casa, non. ha mai voluto affrontare l’argomento.
“Sono dell’avviso che qualsiasi vita e qualsiasi posto possano essere interessanti”, ha detto Alice Munro in un’intervista rilasciata a margine del Premio Nobel. E non deve stupire se, quando racconta la realtà, si concede uno sguardo limpido, imparziale, a tratti gelido e crudele. Ma che contiene una carica fortissima di empatia. In questo, la scrittrice canadese deve molto alla lezione di due grandi autrici del ‘900. Prima di tutto la neozelandese Katherine Mansfield, a cui rende omaggio nello splendido racconto “Giacarta”. Quando cita uno dei gioielli narrativi della scrittrice morta nel 1923, a Fontainebleau, all’Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo creato da Georges Gurdjieff. Ovvero “Alla baia”. E poi la statunitense Flannery O’Connor, che nonostante la morte prematura a 39 anni, ha lasciato autentici gioielli come i romanzi “La saggezza nel sangue” e “Il cielo è dei violenti”, ma anche tanti racconti.
La normalità delle vite che attraggono Alice Munro, ha detto Antonia Byatt, l’autrice di “Possessione” e “Angeli e insetti”, nasconde sempre un colpo di forbice che la taglia di netto. Non c’è mai niente di rassicurante in quel lento fluire dei giorni. Perché il destino degli uomini è intriso di questo strano impasto. Banalità e sconvolgimento. Minuti, ore, settimane, tutti uguali, e improvvise discese più vorticose di quelle delle montagne russe.
Eppure, ognuno pretende di gestire il proprio tempo liberamente, come se in agguato non ci fosse l’imprevisto. Ed è proprio lì, nel doversi sorprendere di continuo per i piccoli, inesorabili cambiamenti della quotidianità, che sta il fascino di essere qui e ora. Su questa palla di terra, acqua e aria dispersa nell’universo. Pronti a vivere fino in fondo, come nei racconti di Alice Munro, tutto quello che ci potrà succedere.
<Alessandro Mezzena Lona<