• 26/04/2020

Eva Baltasar, la vita raccontata da Miss Permafrost

Eva Baltasar, la vita raccontata da Miss Permafrost

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Che grande cumulo di contraddizioni è l’uomo. Inventa presenze trascendenti nei cieli, che si alternano senza soluzione di continuità, e poi afferma con convinzione: “Grazie a Dio sono ateo”. Ha un solo modo per liberarsi da quell’infelicità che lo scrittore austriaco Thomas Bernard e il filosofo sudafricano David Benatar fanno iniziare nel momento stesso della nostra nascita: interrompere volontariamente la propria vita. Eppure, non c’è società che non si affanni a moltiplicare le misure di sicurezza, che non si premuri di iniziare il maggior numero di persone possibile alle tecniche di primo soccorso. Senza dimenticare che per le religioni, il suicida non merita nemmeno di essere seppellito in terra consacrata.

Ma non si può impedire a uno scrittore, a un artista, di andare con la sua creatività ben oltre il confine di leggi sociali ormai invalicabili. Non si può vietargli di scrivere romanzi provocatori, come “Permafrost” firmato da Eva Baltasar: “Il mondo è pieno di persone prive di scrupoli che hanno studiato il primo soccorso, sono dappertutto, discrete e grigie come femmine di piccione, ma aggressive come madri. Sfidano la morte degli altri con massaggi cardiaci e precise manovre di Heimlich. Sono una banda di ladri, non puoi nemmeno permetterti di mandar giù un nocciolo di oliva nel canale sbagliato, te lo faranno sputare a forza, anche se dovranno spezzarti le costole e perforarti un polmone, ti ritroverai sporca di vomito di Dry Martini e il nocciolo di oliva verrà scagliato via come un trofeo in un cantuccio lontano”.

Capito di che pasta è fatto un romanzo come “Permafrost” di Eva Baltasar, tradotto da Amaranta Sbardella per nottetempo (pagg. 158, euro 16)? La scrittrice e poeta nata a Barcellona colpisce duro con questa sua opera d’esordio. Non si nasconde dietro l’ombra rassicurante delle belle parole. Non ha paura di chiamare per nome quei pensieri, quei desideri, che la società ha sempre tentato di esorcizzare. Di eliminare dal proprio orizzonte. Così facendo, costruisce uno dei libri  più originali e pirotecnici che si siano materializzati nel panorama editoriale in questi ultimi anni.

Eva Baltasar, che in Spagna è stata premiata con il Llibreter de narrativa, assegnato dai librai catalani, non gioca a scimmiottare il grande Thomas Bernhard. Lo cita come spirito guida del suo percorso narrativo, prendendo una frase dallo splendido romanzo “Il soccombente”: “Essere partoriti è un’infelicità, diceva, e fintanto che viviamo ci portiamo appresso questa infelicità”. E poi tira dritta per la sua strada. Portando alla ribalta una figura di donna che, fin dai primi anni della sua adolescenza, preferisce stare al riparo della propria membrana di gelo. Usando il “Permafrost” del titolo, ovvero lo strato di ghiaccio che preserva la vita sulla Terra, per difendersi dalla violenza del mondo. Per vivere sull’orlo del baratro senza lasciarsi cadere nel vuoto. Perché, se lo facesse, potrebbe finire per schiacciare qualcuno, laggiù. Magari un povero gatto ignaro del nostro male di vivere.

Ed è proprio aggrappandosi a una grande ironia, a un sense of humour nerissimo, eppure capace di strappare al lettore risate a denti stretti, che Eva Baltasar accompagna la sua protagonista dentro il cuore della vita. Dove scoprirà di amare le donne, anche se questo è totalmente controcorrente. E che il sesso può allontanare dal pensiero ossessivo della morte. Ma non per questo “mi avvicina alla vita”. Perché la giovane fragile non ha mai trovato le istruzioni per l’uso della sua vita. Tanto da convincersi che la sua esistenza sia “un accidente predicabile, violentatore. Non definisce ontologicamente la mia esistenza bensí la occupa come un manipolo di soldati, ci si fa forte mi assolutizza. Autogiustificata, mi distrugge”.

Alla fine, per sopravvivere alla vita, “le famiglie si chiudono su se stesse come città in assedio”. E alla protagonista di Eva Baltasar non resta che scavarsi una nicchia tutta sua. “Un buon rivestimento, impermeabile come quello degli scafi” per non lasciarsi travolgere dalla voglia di interrompere il dolore legato all’idea stessa di esistere. Uno scudo di “Permafrost”, appunto, dietro il quale può permettersi di irridere chi usa “le dimore dei pesci rossi nei ristoranti come posacenere”.

Ma, in fondo, a chi interessa di loro? Se muoiono intossicati “dalla chimica bioacida delle cicche”? Sono solo “oggetti decorativi. Vite inutili”.

E noi, perché dovremmo essere diversi? È forse più importante il nostro destino al cospetto dell’infinito universo? Noi, fastidiose macchioline sulla lente di un occhiale. Noi, corpi dentro cui “ogni cellula si riproduce, a me estranea, e allo stesso tempo mi riproduce, mi converte in un’entità dovuta”.

“Permafrost” è senza dubbio uno dei romanzi più disturbanti e convincenti che si possano leggere di questi tempi. A Eva Baltasar va dato il merito di aver snobbato il vizio assurdo della bella trama, della storia che piace ai lettori, così drammaticamente caro agli scrittori e agli editori contemporanei. Un libro come il suo, cupo e luminoso al tempo stesso, profondo e platealmente grottesco, scritto con una lingua precisa, nitida, tagliente, e proprio per questo apprezzabile dal punto di vista estetico, non può lasciare indifferenti. E allora, lunga vita e creatività alla scrittrice di Barcellona.

<Alessandro Mezzena Lona<

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