• 29/01/2021

Elena Varvello, leggere “Solo un ragazzo” per imparare a scrivere

Elena Varvello, leggere “Solo un ragazzo” per imparare a scrivere

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A volte un romanzo può indicare la strada a chi sogna di scrivere. Perché contiene in sé la giusta struttura, i dettagli, i dialoghi, i luoghi, l’equilibrio tra i personaggi, i cambi di messa a fuoco narrativa, che tutti assieme contribuiscono a formare un ottimo libro. Per capirlo, però, bisogna dedicargli il giusto tempo. Essere pronti, leggendolo, a smontare e rimontare la sua struttura. Maneggiarlo con la delicatezza, la curiosità, il metodo di un orologiaio che vuole capire a tutti i costi come funziona un meccanismo a lui estraneo.

Ecco, se le scuole di scrittura accettassero consigli, dovrebbero adottare come libro di testo nella sezione narrativa il nuovo romanzo di Elena Varvello. Non che gli altri lavori della scrittrice di Torino fossero meno interessati. Partita dalla poesia (“Perseveranza è salutare”, “Atlanti”), con i racconti “L’economia delle cose” nel 2008 è stata selezionata subito per il Premio Strega, ha vinto il Settembrini e il Bagutta Opera Prima. Anche i romanzi “La luce perfetta del giorno” del 2011, ma soprattutto “La vita felice” del 2016, hanno convinto la critica e il pubblico a innamorarsi di questa autrice, che è docente alla Scuola Holden.

Elena Varvello non ha ricevuto applausi, per il suo lavoro letterario, soltanto in Italia. Basterebbe ricordare che proprio “La vita felice” ha sfondato i confini conquistando le classifiche di vendita in Gran Bretagna nel 2018, nella sezione Narrativa straniera. Unico titolo italiano, insieme alla quadrilogia di Elena Ferrante, a farsi onore tra Londra e dintorni.

Eppure, “Solo un ragazzo”, pubblicato da Einaudi (pagg.186, euro 18,50), dimostra come una scrittrice brava, già avviata su una strada costellata da eccellenti lavori, possa sempre superare se stessa. Se dedica alla storia che scrive non soltanto una convinzione assoluta, ma anche tutta la dedizione che serve per distillare dalla materia grezza un’opera in cui ogni singola pagina, ogni snodo narrativo, faccia risuonare la propria originalità, la passione, la forza. Come accade nelle migliori partiture musicali.

Il titolo dice già molto sulle scelte narrative di Elena Varvello. Sì, perché la scrittrice, dichiarando di voler raccontare “Solo un ragazzo”, con tutte le banali contraddizioni e le dirompenti inquietudini legate all’adolescenza, sceglie la via più difficile. Dal momento che rinuncia a servirsi di roboanti effetti speciali. Ma proprio in questa sfida si cela il fascino della storia.

Prima di svelarla la storia, senza dire troppo, bisogna soffermarsi ancora a riflettere sulla frase di Emily Dickinson che Elena Varvello ha voluto mettere in esergo al suo “Solo un ragazzo”. Dice: “Tell all the truth but tell it slant”. Che si potrebbe tradurre con un “racconta tutta la verità, ma raccontala in maniera sghemba”. La scrittrice torinese non ha scelto a caso questa parole della grande poetessa solitaria americana. Perché il suo romanzo procede esattamente così. Affronta la storia in maniera obliqua, laterale. Non lascia mai che sia una verità a prender il sopravvento su un’altra. Ogni sguardo che inquadra gli eventi prima o poi rivelerà di avere perso il fuoco, di essersi ritrovato fuori traiettoria.

Al centro del romanzo c0′ è un ragazzo. Uno come tanti, figlio di una normalità che forse si avvicina più alla banalità che all’inquietudine. È lui che incarna l’enigma dell’adolescenza, i suoi troppi silenzi, l’incapacità di confrontarsi con il mondo guardandolo negli occhi. Ma, al tempo stesso, questo piccolo uomo, che non ha ancora trovato il proprio centro di gravità, è l’oggetto incondizionato dell’amore di un padre chiuso nella sua incapacità di dialogo, tipicamente maschile, di una madre che sarebbe pronta a perdonargli tutto. Di due sorelle diversissime tra loro, eppure sicure della loro sintonia con lui.

Il ragazzo è un enigma per se stesso, ancor più che per gli altri. Costruisce un rifugio nel bosco dove accumula oggetti che il mondo attorno a lui non vuole più. Fino a quando, un giorno, entra senza una ragione apparente nella casa di una famiglia amica. Si strugge tra la sua innata incapacità di fare del male e un’oscura voglia di minacciare, sequestrare, forse arrivare a un gesto estremo. Impossibile per lui spiegare, più tardi, che cosa lo abbia trascinato in quell’avventura difficile da giustificare, da perdonare. Non gli resta che scomparire. Perché non è pronto a gestire i riti ordinati del mondo. E perché la realtà non è capace di decifrare le sue dichiarazioni mute di inadeguatezza, di spaesamento.

E qui sta il grande fascino di “Solo un ragazzo”. Perché Elena Varvello non cerca mai di spiegare. non si accontenta di adottare un punto di vista sulla storia, e poi tirare dritta. No, tutto il magma narrativo viene impastato, modificato, smentito, arricchito e contraddetto, interpretato e rimaneggiato, a seconda della prospettiva da cui lo si guardi. Ogni attore di questa messa in scena, ogni testimone del contraddittorio evolversi di un’adolescenza, finisce per dettare la propria versione. Al punto che il lettore si troverà a mettere in dubbio perfino i termini stessi della vicenda. E la misteriosa sparizione del suo protagonista.

Limpido nel raccontare una vita dalla sconcertante, apparente normalità, adrenalinico nell’indagare la solitudine di un ragazzo che si sente estraneo alla realtà, oltre che a se stesso, sorretto da una voce narrativa che non tentenna mai, ma continua il suo percorso senza concedersi deragliamenti, “Solo un ragazzo” è uno dei migliori romanzi italiani pubblicati negli ultimi anni. Viene soltanto da chiedersi se le giurie dei più importanti premi letterari italiani ne terranno conto. Perché sarebbe davvero un errore clamoroso trascurare un’autrice del valore di Elena Varvello. Il suo libro si fa leggere come una storia a perdifiato, senza rinunciare alla qualità della scrittura e dell’ideazione.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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