Nella vita vorrebbero essere tutti protagonisti. Senza rendersi conto che, alla resa dei conti, a forza di restare sempre in primo piano si finisce per fossilizzarsi in un ruolo. Per recitare una parte. Quella che la società ti assegna. Quella che le persone, abituate a vederti indossare sempre la stessa maschera, ti assegnano fino alla consumazione dei tuoi giorni. E allora? Non potrebbe risultare più affascinante calarsi nei panni della comparsa? Accontentarsi di essere un personaggio più sfumato.
E da lì che è partita Pauline Klein. Dalla “libertà che ti dà la capacità di essere nascosto”, come ha spiegato in un’intervista. E allora, il suo romanzo non poteva che mettere in scena una ragazza capace di mimetizzarsi sempre tra le seconde file. Una “Figurante”, insomma. Quella che si prende la scena nel libro splendidamente tradotto da un’ottima scrittrice italiana, con casa a Parigi, Lisa Ginzburg (il suo romanzo “Cara pace”, pubblicato da Ponte alle Grazie, è stato candidato da Nadia Terranova al Premio Strega 2021) e pubblicato da Carbonio (pagg. 136, euro 14), la casa editrice che sta mettendo assieme un catalogo di autori originale, sorprendente e di tutto rispetto.
Acclamata subito con il Prix Fénéon nel 2010 (e nel 2011 del Premio Murat del Group de Recherche sur l’Estrême contemporain dell’Università di Bari), all’uscita del suo romanzo “Alice Kahn”, Pauline Klein ha studiato Filosofia alla Sorbonne, Estetica alla Nanterre University, si è specializzata alla Saint Martin’s School of Art di Londra. In più, ha lavorato per quattro anni in una galleria d’arte di New York. Esattamente come Camille, la protagonista della sua “Figurante”.
Non è meno intelligente degli altri. E non le manca il fascino. Eppure Camille capisce in fretta che “piuttosto che abbaiare chi ero, come facevano certe ragazze mie coetanee nell’adolescenza, io la mia natura l’avrei sussurrata. La mia impronta sarebbe stata l’assenza di tracce. Meno ci si preoccupava del mio destino, meglio io stavo”. C’è più gusto a percorrere i giorni della vita senza doversi sempre esporre. Anche per non ritrovarsi nella situazione vissuta da Gregor Samsa nella “Metamorfosi” di Franz Kafka. Perché la mattina in cui si risveglia trasformato in un mostruoso, gigantesco insetto, il commesso viaggiatore non riesce più a immaginare per se stesso un ruolo all’interno della famiglia. E nemmeno nel mondo del lavoro.
Così, Camille decide di fare della propria vita una sorta di lavagna su cui scrivere, di volta in volta, una storia diversa. Una pagina bianca da riempire senza l’ansia di chi deve allineare per forza una mucchio di parole dopo l’altro. Va a lavorare a New York in una galleria d’arte, sottopagata e del tutto delusa dal microcosmo che la circonda. Quando decide di licenziarsi, finge una malattia grave. Si barrica in casa adducendo sintomi imponenti, che in qualche modo si costringe a provare per davvero. Ma al momento di rimettere il naso in strada, si accorge che non c’è la famiglia di Gregor Samsa ad aspettarla. È totalmente sola a imprimere una nuova direzione alle proprie giornate.
Allora decide di iscriversi a uno SmartSex, sito che fornisce servizi erotici tramite il telefono a pagamento. Ma chi può incontrare in un luogo virtuale così squallido, se non patetici pervertiti che inseguono i fantasmi del proprio desiderio erotico? Passa, allora, al forum per brave ragazze, dove si maschera dietro il profilo di uno sporcaccione voglioso.
Il problema di fondo è che Camille non riesce a connettere il pensiero, la fantasia, la propria mente, insomma, al corpo, alla carnalità, al desiderio senza sentirsi rigidamente scissa. Insegue, insomma, una via per non separare la fantasia dalla realizzazione del desiderio, l’emozione dall’appagamento carnale. E anche quando cercherà la sua voce per iniziare a scrivere, per intraprendere un percorso letterario del tutto suo, incontrerà chi le suggerisce: “Cerchi di tirarmi fuori una parvenza di storia che non s’avvicini così tanto alla biografia del suo personaggio principale”. Perché la letteratura ha bisogno di trovare una strada del tutto sua, che osservi la realtà, poi la metta in un angolo e inizi a romanzarla.
Pauline Klein insegue, con la sua “Figurante”, un sogno che tormenta l’umanità da tempo. Ovvero, di trovare il modo per rivendicare “il diritto di entrare attraverso porte proibite, penetrare in luoghi stranieri, essere legittimate a vivere e a dormire con lo sconosciuto che mi trovavo di fronte, non ascoltare il brusio del mondo, ma solo il mio”. Così, costruisce attorno a Camille un gioco letterario eversivo, ironico, del tutto originale. Che fa assomigliare la protagonista al cocciuto scrivano Bartleby di Herman Melville, intestardito a ripetere il suo mantra “I would prefer not to” in faccia alla vita. Ma che richiama alla memoria anche Anne Marie la Beltà di Yasmina Reza (leggi in questo blog Arcane Storie http://www.arcanestorie.it/2021/02/04/yasmina-reza-anne-marie-la-belta-di-stare-nellombra/), o il personaggio femminile de “Il mio anno di riposo e di oblio” della scrittrice americana, con origini iraniane e croate, Ottessa Moshfegh (leggi http://www.arcanestorie.it/2020/05/19/ottessa-moshfegh-un-anno-di-riposo-e-oblio-dal-mondo-liquido/). Figure del tutto capaci di rompere gli schemi, per inseguire la propria sfuggente libertà dalle imposizioni.
Ma, in fondo, se proprio vogliamo andare ancora a ritroso nella letteratura, non è forse il desiderio della “Figurante” di sussurrare la propria storia al mondo, senza urlare, un modo per rendere più attuale il decadente, aristocratico sbattere la porta in faccia alla realtà del giovane Jean Floressas Des Esseintes raccontato nel 1884 da Joris Karl Huysmans nel suo “À rebours”? Anche perché la Camille di Pauline Klein conclude il suo viaggio alla ricerca di un senso, del tutto personale, con “il sentimento di essere nient’altro che la mia propria ricerca”. Specchio che si specchia nella complicata arte di rimanere fedeli a se stessi.
<Alessandro Mezzena Lona