• 01/10/2022

Pupi Avati, parole e immagini di luce per Dante

Pupi Avati, parole e immagini di luce per Dante

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Ci vuole un coraggio immenso per raccontare Dante Alighieri. Ma attenzione: raccontare non significa documentare, seguire i passi della sua vita compulsando le fonti. Oppure fare un lavoro di ricerca sui documenti e le testimonianze. No, vuol dire andare molto al di là di tutto questo. Perché un artista, per confrontarsi con il più grande poeta di tutti i tempi, deve volare altissimo: Trovare, insomma, un perfetto equilibrio alchemico tra Storia e invenzione, tra dati biografici e immaginazione, tra diceria, leggenda e verità della narrazione. Senza dimenticare che, davanti alla bellezza della sua “Vita Nova”, delle “Rime” e di quel monumento della letteratura che è la “Divina Commedia”, sarà impossibile non lasciarsi trascinare dall’emozione.

Un solo artista poteva aspirare a raccontare Dante Alighieri con rigore e passione, con veridicità e sensibilissima fantasia. Un grande regista, uno scrittore raffinato, un uomo dalla sensibilità immensa. Si chiama Pupi Avati, ha dietro le spalle un passato di opere cinematografiche straordinarie: da “Thomas e gli indemoniati” a “Le strelle nel fosso”, da “Impiegati” a “Regalo di Natale”, da “Jazz band” a “La casa dalle finestre che ridono”, da “L’arcano incantatore” a “Ma quando arrivano le ragazze?”. Per citarne soltanto alcune. E poi, ha dimostrato di saper scrivere libri ben strutturati, affascinanti, originali: dall’autobiografia “La grande invenzione” a “Il ragazzo in soffitta” e “Il Signor Diavolo”.

A Dante ci pensava da uno sfracello di tempo. Si dice che Pupi Avati avesse iniziato a scrivere un trattamento per un film addirittura all’inizio degli anni Duemila. Soltanto molto tempo dopo, proprio in questo 2022 contrassegnato da grattacapi di tutti i tipi, gli è riuscita però l’impresa di portare il suo progetto sul sommo poeta sia nelle librerie che nelle sale cinematografiche. Prima, infatti, è uscito il suo romanzo “L’alta fantasia” pubblicato da Solferino (pagg. 168, euro 16.50). E da pochi giorni è sugli schermi la sua nuova pellicola “Dante”, prodotta dal fratello Antonio Avati, con. la fotografia di Cesare Bastelli, le musiche di Lucio Gregoretti e Rocco De Rosa. E con un cast che, accanto a attori esperti come Sergio Castellitto, Enrico Lo Verso, Alessandro Haber, Marino Rigillo, Leopoldo Mastelloni, Erika Blanc, affianca volti meno noti come la splendida Carlotta Gamba, Alessandro Sperduti, Romano Reggiani. Una citazione particolare merita uno degli interpreti feticcio del regista bolognese: Gianni Cavina, morto il 26 marzo di quest’anno, che veste i panni di Piero Giardina.

Pupi Avati non nasconde di avere un grande debito nei confronti di Giovanni Boccaccio. Tanto da citarlo come soggettista del film. E ammettere, nella nota introduttiva de “L’alta fantasia”, che non avrebbe “mai trovato l’ardire per accingermi a questa impresa” se non si fosse imbattuto nel “Trattatello in laude di Dante“: non solo una magnifica summa di tutto l’amore e l’ammirazione che l’autore del “Decameron” provava per il sommo poeta. Ma anche un ottimo punto di partenza per costruire il viaggio con le parole, e poi con le immagini in movimento, sulle tracce dello scrittore fiorentino. In due opere che vivono di vita propria: una nutrita dal racconto scritto, l’altra da quello visivo. E che, pure, sono riflessi dello stesso specchio incantato.

Libro e film seguono il medesimo percorso narrativo. Iniziando quando Giovanni Boccaccio viene incaricato dal capitano della Compagnia di Orsanmichele di partire alla volta di Ravenna. La sua missione sarà quella di consegnare a suor Beatrice, la figlia di Dante chiusa nel convento di Santo Stefano degli Ulivi, una tasca ripiena di dieci fiorini d’oro “come risarcimento per le pene inflitte ingiustamente dalla città di Firenze al di lei genitore”. In lui, nell’autore del “Decameron” ammalato di scabbia e tallonato dall’ombra dei suoi fallimenti sentimentali, viene riconosciuto l’uomo che di più ha fatto per la conoscenza e la diffusione del sommo poeta morto in esilio in una notte di tempesta del 1321. Ventinove anni prima che la sua terra si ricordasse di lui e provasse a chiedergli perdono per le ingiuste persecuzioni.

Comincia così un lungo peregrinare di Boccaccio sul tracciato che separa Firenze da Ravenna. E mentre il viaggio a cavallo lentamente fluisce, al ricordo dei versi sublimi di Dante si inframezza il racconto della sua complicata vita. Dall’incontro con l’amico fraterno e poeta Guido Cavalcanti al primo avvistamento di Beatrice Portinari bambina, e poi splendente giovane donna. Dalla decisione di farsi eleggere tra i priori di Firenze, per tentare di riportare la pace tra le diverse fazioni e schierarsi dalla parte del popolo, alla visita infausta al corrotto e capriccioso Papa Bonifacio VIII (reso indimenticabile nel film da uno strepitoso cameo di Leopoldo Mastelloni). Quel Benedetto Caetani che farà arrestare il mito frate Pietro da Morrone, diventato Papa con il nome di Celestino V per poco più di tre mesi, e aprirà le porte di Firenze a Carlo di Valois. Spingendo al potere i Neri e suggerendo al podestà Cante Gabrielli a condannare Dante al rogo e alla perdita delle proprietà. Tanto da convincere il poeta a inserire il corrotto pontefice nell’VIII cerchio dell’Inferno, nella terza bolgia di Malebolge, tra i peccatori di simonia. Cioè di chi aveva fatto commercio delle cose sacre. “Se’ tu già costì ritto Bonifazio?”, gli chiederà vedendolo conficcato nella terra a testa in giù in un buco infuocato da cui escono soltanto le gambe. Pena terribile, con le fiamme ardenti che straziano le piante dei piedi, per chi ha speso il suo tempo nel godere in maniera smodata dei beni terreni.

“L’alta fantasia” e il film “Dante” sono due racconti d’avventura nel senso più nobile del termine. Indagano il tormento purissimo e, al tempo stesso, carnale dell’amore per una donna data in moglie a un uomo che non la merita (“Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta / ch’ogne lingua deven tremando muta / e gli occhi no l’ardiscon di guardare”), lo strazio legato alla condanna dell’esilio dalla città natia, dalla propria terra, il tormento per aver dovuto decidere di allontanare da Firenze nelle vesti di priore l’amico fraterno Guido Cavalcanti (“Guido, i’vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento /e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio”). Pupi Avati mostra con tagliente precisione, e mai retorica emozione, l’astio ancora che ancora abitava i conventi nei confronti dell’eretico Dante, che aveva osato criticare e condannare Il Signore il Papa. Ma anche la maledizione del dover elemosinare un po’ di ospitalità e di cibo alle corti dei signori disposti a ospitare e nascondere un uomo in fuga come l’Alighieri (“Tu proverai come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”) e la nostalgia straziante per una lontananza ingiusta e inaccettabile (“O montanina mia canzon, tu sai / forse vedrai Fiorenza, la mia terra / che fuor di sé mi serra / vota d’amore e nuda di pietate”).

Nel libro e nel film di Pupi Avati, Dante diventa allora il simbolo del dolore che trova sublimazione nella poesia. L’uomo che “sapeva il nome vero di tutte le stelle”. Il poeta che ha fatto del tormento l’inchiostro indelebile per scrivere versi capaci di spingersi fino alla fonte segreta del mistero di esistere. Fino a guardare negli occhi l’arcano incantatore: quell’amore “che move il sole e l’altre stelle”.

E nel romanzo “L’alta fantasia”, poi, Pupi Avati ha voluto inframmezzare alle parole le suggestioni musicali scritte dai più grandi compositori do ogni tempo. Togliendo, una volta per tutte, dalla polvere del tempo quel Dante Alighieri che, ora più che mai, sa parlare alla nostra mente, al nostro cuore, al di sopra e al di là di quel “velame de li versi strani”. Che spesso, per pigrizia, ci ha resi diffidenti nei confronti dell’umanissima, luminosa forza dell’opera  poetica del nostro padre letterario.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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