• 21/11/2023

Giuseppe Genna e “Yara”: il Male sia con voi, per sempre

Giuseppe Genna e “Yara”: il Male sia con voi, per sempre

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Sulla copertina, sotto il titolo, c’è scritto: “The true crime”. Per una volta, non sono parole messe lì a caso. E nemmeno uno dei tanti strilli inventati dagli editori per attirare l’attenzione sul romanzo. No, quel sottotitolo rispecchia esattamente il lavoro fatto da Giuseppe Genna per questo libro. Il suo pensiero su uno dei delitti che hanno cambiato per sempre la sensibilità dell’Italia. Che è diventato, in qualche modo, il delitto per antonomasia. Per l’approccio con le indagini del tutto nuovo, assillante, inarrestabile, per il racconto di un fatto di cronaca nera che ha squadernato davanti agli occhi del mondo intero il rapporto spesso controverso tra la società e la famiglia, tra il diritto alla privacy e il diritto di cronaca.

Il titolo, poi, è ancora più secco, più tagliente, più ultimativo. Perché il nuovo romanzo di Giuseppe Genna evoca un nome che nessuno di noi potrà mai dimenticare: “Yara” (Bompiani, pagg. 413, euro 20). Ed è proprio osservando quel nome stampato in copertina, in bianco su uno sfondo nero che lascia posto, in secondo piano, all’immagine di una felpa azzurra con il cappuccio, che la memoria comincia a vorticare a ritroso. Che cerca di rimettere a fuoco i terribili ricordi legati proprio a quel nome. Che apparteneva a una ragazzina dal sorriso contagioso, con l’apparecchio per raddrizzare i denti bene in mostra. Che proietta sul palcoscenico del presente una storia terribile,. Una tragedia che qualcuno si illudeva di essere riuscito a seppellire nel buio della memoria.

La storiaccia è quella di Yara Gambirasio. Un tardo pomeriggio questa ragazzina di 13 anni esce di casa a Brembate di Sopra, nella Bergamasca: è il 26 novembre 2010. Deve portare un impiantino stereo a una delle istruttrici della palestra che frequenta, per gli allenamenti di ginnastica artistica. Sa di dover rientrare entro le 18.3o e le è stato detto più volte di fare un percorso preciso: quello che attraversa strade sempre ben illuminate dai lampioni. Non certo le viuzze secondarie, buie e poco frequentate.

Eppure, quella sera Yara non farà ritorno dalla sua famiglia. Svanisce nel nulla. La cercano per mesi, battendo a tappeto il paese, i dintorni, i borghi che stanno nel circondario. Il suo cadavere verrà ritrovato appena il 26 febbraio 2011, tre mesi dopo la scomparsa, in un campo a Chignolo d’Isola. A dieci chilometri da Brembate di Sopra. Il corpo è adagiato tra il fango e la neve. Invisibile ai controlli a tappeto effettuati, fino a quel momento, tutto intorno all’area della sua scomparsa. Oppure messo lì molto tempo dopo? Dall’attenta autopsia effettuata dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo, definita “la signora delle ossa”, vengono rilevati colpi di spranga, una profonda ferita al collo e almeno altre sei incisioni sulla schiena fatte con un’arma da taglio

Giuseppe Genna, milanese, autore di libri di forte impatto come “Dies irae” e “History”, ma anche collaboratore di fiction televisive e per un periodo impegnato in incarichi molto lontani dal mondo della letteratura, chiarisce subito, prima di immergersi nel magma oscuro di questa storia, di “rispettare la vita privata”, che è “sacro onorare”. mentre “i libri sono sempre meno sacri”. E anche se il suo “true crime” intende onorare la vita privata di Yara e degli altri protagonisti, l’autore si rende conto che una storia del genere è diventata ormai uno dei principali casi criminali della storia d’Italia. Capace di sconvolgere “le vite private dei protagonisti, rendendole pubbliche e sovrapposte, il che non è sembrato sufficiente all’indecenza delle platee, le quali hanno voluto colpire quei protagonisti con un ciclone di oscenità mediatiche a cui il Paese si era preparato da molti decenni, ben prima che altrove nel mondo”.

Per questo, Giuseppe Genna ha scelto la formula del romanzo documentario, o “docunarrazione”. Seguendo con feroce attenzione e precisione lo svolgersi dei fatti. Ma, al tempo stesso, prendendosi la libertà di mettere in scena quelle “drammatizzazioni di contorno” che sono indispensabili per portare avanti il racconto. Così, lo scrittore ha pensato che fosse giusto inventare la figura di un testimone. Un’ombra sempre presente, uno sguardo attento e inquieto. un deus-ex-machina capace di seguire passo passo le innumerevoli microtappe della vicenda. Perché al lettore non sfuggisse nemmeno un dettaglio. Perché, alla fine del libro, potesse avere ben chiara la visione di quello che è stato il vero “true crime” italiano. Il crimine per antonomasia, l’assassinio per eccellenza. Un orrore perpetrato nei confronti di una bambina che niente aveva fatto per finire tra le grinfie di un implacabile assassino.

Attorno al mistero della sparizione di Yara, nel libro di Giuseppe Genna, danza un mondo di implacabili cronisti a caccia di notizie e di attonita gente qualunque coinvolta in una storia di cui non è capace di gestire le dirompenti conseguenze che si abbatteranno sulle microcomunità dei tanti paesi della Bergamasca. E poi, in questa danza macabra contemporanea, vorticano investigatori impegnati in una caccia all’uomo mai organizzata prima, in maniera così scientifica, e testimoni che non sempre raccontano la verità; ciarlatani e sedicenti sensitivi che non ne azzeccano una, con le loro “visioni” imprecise e inutili, e un’opinione pubblica che oscilla tra sfrenato colpevolismo e inconcepibile innocentismo quando, alla fine, verrà arrestato il presunto esecutore dell’assassinio grazie a una mastodontica mappatura del Dna degli abitanti di quel lembo d’Italia. Una campagna di tamponi molecolari che passerà al setaccio il patrimonio genetico di oltre ventimila persone. E finirà per inchiodare alla sua colpa quello che per lungo tempo verrà definito Ignoto 1. Fino a quando i dati genetici non riveleranno la sua identità: quella di Massimo Giuseppe Bossetti. Che verrà, poi, condannato all’ergastolo. Sentenza confermata in tre gradi di giudizio.

Giuseppe Genna non manca di ricordare lo scivolone degli investigatori, che per un po’ hanno rischiato di incriminare tale Mohammed Fikri, lo straniero, il cattivo venuto da lontano per seminare violenza nelle nostre comunità. Sospettato e, per un breve periodo arrestato perché erano state tradotte in maniera errate le sue parole intercettate in una conversazione telefonica. E, se non bastasse, ritornano anche le morti inquiete di un ragazzo e di una ragazza, trovati cadaveri proprio nei giorni in cui tutti cercavano Yara. E le cui storie sono rimaste avvolte nella nebbia del dubbio. Perché, in quel momento, era alla scomparsa della piccola Gambirasio che bisognava dare una risposta.

Ma il romanzo di Giuseppe Genna non è solo un puntualissimo riepilogo del “true crime”. È soprattutto una riflessione inquieta e inquietante sulla nostra società. Sul perbenismo che genera mostri, sulla morbosa curiosità scatenata da fatti così estremi, sulla solidità e sulla fragilità del nostro sistema investigativo e giudiziario. Sulla sete inestinguibile del dolore altrui e della necessità di attribuire la colpa a qualcuno. Per esorcizzare in fretta il fantasma che si annidi all’interno della comunità stessa, e soprattutto dentro di ognuno di noi, quel Male che ci fa comodo proiettare il più lontano possibile dalle nostre case. Dalle nostre vite.

Quattro anni dopo la condanna di Bossetti, arriverà un altro male, questa volta con la m minuscola, a mietere morti nella Bergamasca. Lo chiameranno Covid, non sapranno dire se è un virus sfuggito a un laboratorio in Cina o provocato da uno “spillover” tra animali e uomini. Certo è che la malattia che costringe i corpi a un’angosciante fame d’aria colpirà duramente proprio la Val Seriana e i luoghi già travolti dall’ombra terribile dell’omicidio di Yara. Luoghi attraversati secoli orsono, peraltro, alla terribile filastrocca che inizia con “Ara berara” e racconta la storia di una principessa, la bella Ara Cornaro, uccisa dal conte Tommaso Marino di cui aveva rifiutate le profferte amorose. Delitto rimasto, peraltro, impunito e diventato nel tempo oggetto di denuncia grazie al passaparola dei cantastorie.

Chi era Tommaso Marino? È presto detto: un violento tombeur des femmes, che fece costruire il sontuoso Palazzo Marino a Milano, sede adesso del Comune, di fronte al Teatro La Scala, e che fu padre di Virginia Maria, andata in sposa a Martino de Leyva, per diritto ereditario conte di Monza. La donna che avrebbe messo al mondo Marianna de Leyva. Divenuta, poi, suor Virginia Maria conosciuta come la Monaca di Monza, grazie a quello straordinario romanzo che è “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni.

Alla fine di questo lungo viaggio nelle tenebre, scritto con una straordinaria ricchezza linguistica e un uso delle parole che dà voce allo smarrimento, al tormento, alla voracità di consumare vite altrui, all’incapacità di ammettere le proprie colpe, alla tentazione di emettere sentenze affrettate e sommarie, alla curiosità morbosa mascherata da carità cristiana, alla solidarietà che non smette mai di cercare il Male negli occhi dell’altro, il libro assume un sinistro andamento da partitura sinfonica. A tratti diventa sincopato ritmo, accavallarsi di parole che rimano tra loro come fossero sparate dalla voce di un implacabile rapper che accumula assonanze e dissonanze. Il tutto governato dalla certezza che il sorriso disarmante di Yara sarà sempre lì a chiederci: perché?

Il sussurro dei sogni ormai spezzati di un’adolescente che ha conosciuto una violenza bestiale senza movente, il rimbombare dentro di noi di quel nome, Yara, così particolare e indimenticabile, resteranno per sempre qui. In mezzo a noi. Come simbolo di una vicenda da cui nessuno esce con l’assoluzione. In cui buoni e cattivi recitano la loro parte, ben sapendo che non verranno dichiarati innocenti. “Urlare la Y, inciderla nell’aria. Per sempre”, scrive Giuseppe Genna. Che, in questo libro, ha saputo dare forma al buio e alla penombra del nostro fallimento. Perché, dopo episodi del genere, abbiamo ancora il coraggio di definirci una società civile.

<Alessandro Mezzena Lona

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