C’è stato un tempo in cui la Garzantina Letteratura, uno degli strumenti di consultazione più frequentati prima che arrivasse Wikipedia, dedicava a Stefano D’Arrigo otto righe otto. Del suo capolavoro “Horcynus Orca”, pubblicato da Mondadorei nel 1975 dopo una gestazione infinita, diceva soltanto che era un “discusso romanzo-fiume”. Del resto della produzione dello scrittore siciliano nato a Ali Terme, in provincia di Messina, il 15 ottobre del 1919 e morto a Roma il 2 maggio del 1992, si dava conto in pochi cenni: i versi di “Codice siciliano”, i primi tentativi di dedicarsi al romanzo della sua vita chiusi nelle pagine dei “Giorni della fera”, poi “Cima delle nobildonne” con quella storia folgorante e inquieta di un ermafrodito bellissimo, amato dall’emiro di Kuneor e trasformato in un essere femminile da una complessa operazione chirurgica. Degli inediti non si conoscevano ancora i racconti pubblicati, più tardi, nel volumetto “Il licantropo” appena nel 2012. Stop.
Forse nessuno, allora, poteva immaginare che “Horcynus Orca” sarebbe stato poi intruppato tra i romanzi che non solo sono stati capaci di prendere respiro e linfa dai capolavori del passato, l’ “Odissea” prima di tutti, ma che hanno riscritto il canone della letteratura moderna sulla scia di “Moby Dick” di Hermann Melville, dell’ “Ulisse”di James Joyce”, di tante pagine di Joseph Conrad e Ernest Hemingway, Italo Svevo e Franz Kafka. Un libro, insomma, con cui Stefano D’Arrigo si era fatto beffe dei troppo spesso sterili tentativi della neo-avanguardia di arrivare al grado zero della scrittura, per poi ripartire da lì e costruire indigesti, e quasi tutti rapidamente dimenticati, abbozzi di “nuova letteratura”.
E se oggi nessuno si azzarda più a mettere in dubbio la grandezza e l’originalità non solo narrativa, ma soprattutto linguistico, in quel barocco incontro di italiano e dialetto, di “Orcynus Orca” (che, ha scritto Antonio Moresco ,”imbarazza tutti per la sua dismisura e grandezza, perché contraddice nel modo più radicale i piccoli parametri galateali della letteratura italiana”), al tempo stesso Stefano D’Arrigo ritorna a ribadire il suo talento con un testo inedito e completamente ignorato.
È spuntato a 32 anni dalla scomparsa dello scrittore dalle migliaia di pagine manoscritte e dattiloscritte conservate nell’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux di Firenze.
Non poteva essere un manoscritto inedito di poco conto, quello lasciato da Stefano D’Arrigo. Infatti, “Il compratore di anime morte”, curato da Siriana Sgavicchia, che firma anche il documentatissimo e illuminante saggio finale “Una trama d’autore”, e pubblicato da Rizzoli (pagg. 283, euro 20), si rivela fin dal sottotitolo un’avventura letteraria sorprendente e elettrizzante. Si, perché lo scrittore siciliano stesso dichiara che si tratta di una storia scritta come omaggio a “Le anime morte” del grandissimo Nikolaj Gogol’.
A questo punto, è giusto fare un piccolo viaggio a ritroso nel tempo. Fino al 1842, quando Nikolaj Gogol’ diede alle stampe qulelo che doveva essere un grande poema in prosa, di stile dantesco, capace di raccontare la bassissima dimensione morale raggiunta dalla Russia zarista. Suggerito allo scrittore di Velyki Soročynci, Ucraina, da Aleksandr Puškin, che gli aveva raccontato un fatto di cronaca inquietante e imbarazzante, non arrivò mai a essere completato. Anche perché Gogol’ decise di dare alle fiamme, quasi per intero, la seconda parte dell’opera.
Così, quello che è rimane è la folgorante storia dell’affabile Consigliere di Collegio Pavel Ivanovič Čičikov che arriva un giorno nel capoluogo del governatorato di N. E comincia ad acquistare a un buon prezzo quelle che, ai tempi dell’impero russo, venivano chiamate “anime morte”. Ovvero i servi della gleba maschi, per i quali i proprietari terrieri continuavano a pagare le tasse fino a quando non ne veniva registrata la morte nel successivo censimento quinquennale. L’intento del furbo Consigliere è quello di crearsi, con un’idea diabolica e del tutto truffaldina, un numero di servitori fantasma che finiranno per costituire un grosso capitale, in un momento storico dominato da un vuoto morale che fa assomigliare i personaggi che popolano il libro ad altrettanti morti viventi. Assai più simili ai defunti dei servi dichiarati “anime morte”.
Confrontarsi con un capolavoro di tale valore letterario, linguistico, morale, immaginifico, non dev’essere stato affatto facile. Ma per uno scrittore come Stefano D’Arrigo, capace di sfornare capolavori come “Horcynus Orca” e “Cima delle nobildonne” niente era impossibile. Concepito come un viaggio tra la Napoli e la Sicilia dell’Ottocento, “Il compratore di anime morte” si rivela fin dalle primissime pagine un romanzo modernissimo, costruito alla perfezione attorno a uno stuolo di personaggi ben delineati, divertente al punto da far scomparire tanti libri “contemporanei” usciti in questo primo scorcio di terzo millennio.
Stefano D’Arrigo trasforma Čičikov in Cirillo, un orfano napoletano della Madonna, un trentenne che sogna di formare una famiglia propria capace di dargli l’amore mai ricevuto dagli ignoti genitori. Adottato dal principe Don Ettorino di Margellina, che sperpera i suoi averi al gioco e spera solo che il ragazzo gli fornisca i numeri giusti da puntare al lotto, visto che sembra fare sogni premonitori, escogita un metodo per tentare di risollevare le disastrate finanze del suo insperato padre. Si recherà in Sicilia per acquistare dai nobili proprietari terrieri, pure loro dissennati scialacquatori di denari, le “anime morte” che hanno coltivato le loro disgraziate terre. Così da poterle rivendere, poi, allo Stato e acquisire un bel gruzzolo da girare allo sciagurato principe. E, in parte, da destinare anche alla formazione di una famiglia finalmente tutta sua.
Scandito da un ritmo serratissimo, accompagnato da una lingua molto meno barocca di quella di “Horcynus Orca”, eppure originale, straordinariamente evocativa e visionaria, “Il compratore di anime morte” è un inarrestabile fuoco d’artificio di invenzioni. Capace di mettere alla berlina un mondo dominato dal profitto e dalla meschinità umana. Dove Cirillo, tutto sommato, giganteggia nelle sua spudorata ansia di raggiungere un dignitoso benesserre, che possa fargli dimenticare per sempre gli anni squallidi vissuti nei panni dell’orfano della Madonna.
Scritto, probabilmente, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, “Il compratore di anime morte” rivela quello che sarà uno degli scrittori più originali, irregolari e ineguagliabili del ‘900 europeo. Perché in questo testo, rimasto a lungo inedito, c’è la forza narrativa di Stefano D’Arrigo e la sua capacità linguistica di costruire una voce del tutto diversa da quelle che affollavano il panorama della letteratura italiana.
Davvero un grande regalo per tutti i lettori che amano la letteratura. Per chi già ama Stefano D’Arrigo, e per chi magari si avvicinerà alle sue opere partendo da qui.
<Alessandro Mezzena Lona