• 21/02/2018

Mary Shelley, Frankenstein c’est moi

Mary Shelley, Frankenstein c’est moi

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Non era il vento che ululava tra le montagne e faceva sbattere gli scuri contro le finestre. Nè la pioggia che imperversava da giorni, tutto attorno. Trasformando la luce del giorno in una penombra che digradava rapidamente verso l’oscurità della sera. Nemmeno i fulmini che illuminavano quelle notti interminabili a Villa Diodati, in Svizzera, avevano spinto Mary Shelley a scrivere una storia. Un romanzo. Uno dei capolavori “neri” dell’800: “Frankenstein”. No, era stato, piuttosto, il desiderio di dare vita a un personaggio diverso da tutti. Un Prometeo moderno. Una creatura evitata, rifiutata, maledetta. Un mostro umano che portasse incise nella carne le sofferenze indicibili provate da quella ragazza in fuga dall’Inghilterra per amore. Rimasta orfana di madre troppo presto, sconfessata da suo padre nel momento in cui aveva deciso di dividere la propria vita con il poeta Percy Bysshe Shelley. La grande voce incompresa del Romanticismo.

Non era stata nemmeno la sfida lanciata da lord George Gordon Byron al suo medico personale George William Polidori, e agli altri ospiti di quelle tenebrose giornate a Villa Diodati. A Mary Shelley non interessava scrivere una storia di fantasmi. Non voleva spaventare gli amici con qualche lugubre avventura piena di vampiri, non morti, creature dell’ombra. Lei, la figlia di quella Mary Woolstonecraft, la ragazza madre andata in sposa a William Godwin e diventata ispiratrice in Inghilterra del nascente movimento femminista, pensava piuttosto a quanto potesse sentirsi solo e disperato un uomo fatto di pezzi di cadavere messi assieme da uno scienziato scellerato. Da un padre che non lo amava. E riportato in vita grazie ai prodigi del galvanismo, assai in voga sul principio dell’800.

Prese forma, così, la creatura di Frankenstein. Uno dei personaggi della letteratura che più ha suggestionato il cinema e l’immaginario moderno. Un’invenzione geniale che Lita Judge, geologa che, prima di dedicarsi alla scrittura, studiava i fossili dei dinosauri, ha voluto ripercorrere in un libro davvero splendido: “Mary e il Mostro”, tradotto da Rossella Bernascone per la casa editrice Il Castoro (pagg. 312, euro 15,50).

Non è un romanzo, non è una biografia tradizionale e nemmeno una graphic novel. Perché Lita Judge, che ha deciso di dedicarsi alla scrittura dopo un viaggio a Venezia insieme al marito, ha voluto affiancare al testo dei disegni in bianco e nero. Lasciando che i segni completassero le parole. Permettendo alle ombre e ai lampi di luce di raccontare quello che la sua prosa, basata in gran parte sui diari e le lettere di Mary Shelley, non era in grado di raccontare con la stessa emozionale efficacia.

Così, pagina dopo pagina, vengono a galla i pregiudizi della società inglese dell’800 nei confronti delle donne. Ma anche la difficoltà di un uomo come William Goodwin, giornalista, filosofo e romanziere, considerato come un simbolo del pensiero radicale fino alla fine del ‘700, di accettare che sua figlia scegliesse la via del libero amore. E decidesse di dividere la propria giovinezza con un uomo tormentato come Shelley, che per di più era già marito di un’altra e padre.

La figura fragile, eppure incrollabile, di Mary Shelley, cresciuta nella nostalgia di una madre morta mentre la metteva al mondo, arrivata all’appuntamento con l’amore per Shelley animata dal ricordo mitico dell’esempio di libertà femminile lasciatole in eredità da Mary Woolstonecraft, occupa in tutta la sua ritrovata grandezza le pagine scritte e disegnate del libro. Ricostruendo un’epoca di furori umani e letterari. Raccontando la meschinità di chi predicava idee rivoluzionarie, per poi vergognarsi delle scelte coraggiose della figlia. cacciarla di casa, oltraggiarla, condannare senza remore il suo coraggio di fuggire con un uomo sposato. Che l’avrebbe comunque tradita, ma che lei avrebbe continuato ad amare anche oltre la morte.

Soltanto molti anni dopo la sua pubblicazione, i lettori vennero a sapere che “Frankenstein”, portato a uno scandaloso successo soprattutto grazie alle versioni teatrali che ne vennero tratte, era il capolavoro di Mary Shelley. Di una donna che riuscì a godersi assai poco il successo. Anche perché dovette arrendersi a un tumore al cervello quando aveva appena 53 anni. E vien da pensare, leggendo questo “Mary e il mostro”, che la scrittrice non poteva trovare miglior interprete della sua vita, del suo lavoro di scrittrice, di Lita Judge. Perché la geologa passata alla scrittura, nella sua vita, ha dovuto far ben presto i conti con “una malattia autoimmune cronica”, come racconta nella nota finale del volume, che le ha “impedito pere lunghi periodi di poter usare le mani, i piedi e gli occhi”.

Il dolore, la perdita di contatto con gli altri, l’isolamento dal mondo reale ha portato Lita Judge a ripensare alle parole di Mary Shelley. Quando affermava di aver voluto raccontare, nel suo “Frankenstein”, la tragedia tipicamente maschile di chi si ostina a credersi al centro dell’universo. Onnipotente come una divinità, capace di dare la vita, ma incapace di infondere poi amore alla mostruosa prole. Provando a negare, di fatto, il ruolo fondamentale della donna, che della vita è la vera, sottovalutata creatrice.

Da lì, dall’oscura illusione del dottor Frankenstein, di un dio presuntuoso e debole capace solo di rianimare carne morta, malata, infelicissima imitazione della vita, è nata la storia della Creatura. Un’intuizione narrativa, letteraria, geniale, che ancora oggi, a 200 anni dalla sua pubblicazione, sussurra parole di tenebra e straziante malinconia al nostro essere umani.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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