• 14/12/2018

Antonio Moresco: “Spariremo dalla Terra, ma tutti sorridono”

Antonio Moresco: “Spariremo dalla Terra, ma tutti sorridono”

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Non poteva stare in silenzio, Antonio Moresco. Non uno come lui che ha sognato di cambiare il mondo, che ha lottato per farsi spazio nel sacro recinto della letteratura, quando i maggiori editori gli rispondevano che non erano interessati ai suoi libri. Uno che è sceso dentro gli inferni del nostro tempo con i “Canti del caos”, che ha smascherato la deludente fragilità del mondo intellettuale con “Lettere a nessuno”, che ha tolto la maschera alla società in cui viviamo con “Gli incendiati” e “L’addio”. E infatti, puntuale, nel silenzio più rumoroso di un Italia, di un’Europa che fanno finta di non sapere, di non vedere, di non capire, si è levato alto il suo “Grido”. Per dire, senza perdersi nei giri di parole oscure, che la razza umana sta correndo allegramente verso l’estinzione. Che forse abbiamo già superato il limite di non ritorno per salvare la Terra da un avvelenamento globale. Che la nostra vita non può continuare come se all’orizzonte splendesse sempre il sole.

Ma anche deragliando, per un istante, dal suo percorso di narratore, Antonio Moresco non ha voluto calarsi interamente nei ruolo della voce che grida nel deserto. Non se l’è sentita di rinunciare interamente al ruolo di inventore di storie. Così “Il grido”, pubblicato da Sem (pagg. 204, euro 16), si presenta sotto forma di un libro che corre su due binari paralleli. E se la parte iniziale è quella dove lo scrittore ripercorre la folle traiettoria del nostro fingere di non vedere quanto degradato e compromesso sia il pianeta Terra, tanto da farci manipolare da palesi e occulti potentati che non vogliono rinunciare alle loro speculazioni politiche ed economiche, perché mettono sempre al primo posto il dilagare del consumismo, l’imporsi di quello che Pier Paolo Pasolini definiva sfrenato edonismo, destinato a trascinarci verso il deserto dell’omologazione, poi entra in campo un dialogo a più voci. Una sorta di confronto teatral-romanzesco dove l’autore stesso chiama sul banco degli imputati pensatori, letterati, filosofi. Per capire quanto le idee del passato abbiamo gettato i semi nel nostro presente rendendoci ciechi di fronte a una minaccia clamorosa. Per indurci a ignorare il suicidio della razza umana che è già in atto.

“Sta succedendo una cosa enorme: le nostre sono le prime generazioni umane a vivere al cospetto di un’estinzione di specie”, scrive Antonio Moresco. Forse è troppo tardi per sottrarsi alla sesta estinzione di massa di una specie, 65 milioni di anni dopo quella dei dinosauri. Però l’autore degli “Increati”, come aveva fatto anche Amitav Ghosh nella “Grande cecità”, sente il dovere di alzare la voce. Di riempire le pagine del suo libro di parole forti e coraggiose, senza usare mezzi termini. Senza fornire consolatorie vie d’uscite a quello che rischia di essere un dramma collettivo. “Perché le logiche suicide perseguite dalle strutture economiche dominanti e dai loro burattini politici dietro la maschera della democrazia o mediante uso diretto della tirannide sono incorreggibili dall’interno”.

Se l’economia diventa teologia, Verbo indiscutibile, e la politica si popola di un corteo “di figure grottesche da fine impero, da fine epoca, da fine di specie”, allora bisogna gridare più forte. Per provare a risvegliare dal suo torpore quella che Antonio Moresco definisce la generazione CIS. Quella che sorride sempre nelle foto, che tira le labbra in su per dimostrare all’obiettivo tutta la sua incosciente serenità. Quella che balla sull’orlo dell’abisso azzuffandosi sui problemi dell’emigrazione, sul rialzo dello spread, sulla nostalgia per passati regimi, sulla difesa di identità religiose sbandierate con violenta determinazione. Su guerre e macelli razziali, economici, etnici.

E mentre il suo “Grido” urla con tutta la forza che può domande alle quali la gran parte dell’umanità sembra indifferente, arriva al cinema un film che vede Antonio Moresco nei panni dell’attore. Sì, perché i due registi Jonny Costantino e Fabio Badolato hanno convinto lo scrittore, dopo lungo insistere, a calarsi nella parte del protagonista nella versione cinematografica del suo stesso romanzo “La lucina”, pubblicato da Mondadori nel 2013. Storia intensa di un uomo che si ritira in un borgo abbandonato con l’intento di sparire dal mondo, per ritrovare o per perdere definitivamente se stesso, raccontata per immagini con grande forza visionaria, delicata vena poetica. E il coraggio di rinunciare a priori al successo scontato di troppi prodotti da sala, per costruire una pellicola che attualizza e personalizza la lezione di tanti grandi registi.

“Negli ultimi anni ho letto parecchi libri, articoli su quanto sta accadendo alla Terra, sulla minaccia che pesa sulla razza umana di estinguersi – spiega Antonio Moresco -. E mi sembrava incredibile che tutto ciò non influisse minimamente sulla politica, sull’organizzazione sociale e umana, sull’economia e sulla cultura. Poi, però, mi sono detto che affrontare un argomento così perturbante manderebbe in crisi tutto il nostro sistema. Obbligherebbe a un ripensamento di ogni cosa. Così, le strutture di comando fanno di tutto perché non se ne parli, o al massimo che se ne parli ma in termini di pura informazione scientifica. Altrimenti si abbatterebbe su di noi un tornado violentissimo”.

Dopo i dinosauri spariremo anche noi?

“Ci sono libri molto seri che dicono chiaramente: siamo entrati nell’era della sesta estinzione. La quinta era quella dei dinosauri. Parliamo del Cretaceo, cioè 65 milioni di anni fa. Eppure preferiamo concentrarci su altri problemi. Demonizzare quello, cacciare dal nostro Paese quell’altro. Puntare tutto il programma politico sulla paura dei migranti. Ecco, quello che mi sta avvenendo attorno a me, a un certo punto mi è apparso inaccettabile. E allora ho deciso che era arrivato il momento di lanciare un grido. Di far sentire il mio bisogno di creare una lacerazione nei nostri discorsi, nelle riflessioni che facciamo, per richiamare l’attenzione sul grave pericolo che ci attende”.

Non ha scritto un pamphlet ambientalista?

“No, ci sono persone più brave ed esperte di me per farlo. Io ho cercato, da scrittore che riflette e inventa storie, di andare all’origine del problema. Capire, per esempio, come le teorie politiche, filosofiche, sociali degli ultimi secoli hanno contribuito ad accelerare la nostra fuga verso la catastrofe. Per questo il mio ‘Grido’ inizia come un pamphlet, ma poi si anima, si riempie di figure che dialogano con me: da Giacomo Leopardi a Karl Marx, da Charles Darwin a Michel Houellebecq, da Sigmund Freud a Friedrich Nietzsche. Questa sorta di simposio si tiene in un gabinetto pubblico che sta sotto il livello della strada. Anche per far capire quanto, oggi, la lotta per la verità sia sotterranea, nel momento in cui ai piani alti si fa di tutto per nascondere quello che sta avvenendo”.

Gli intellettuali, oggi, fanno finta di non vedere, di non capire?

“Credo che uno scrittore non possa fare a meno di intervenire sui problemi del tempo in cui vive. Deve parlare per contribuire a fermare la barbarie. Ma può fare ancora di più: nell’800, Fëdor Dostoevskij non si limitava a guardare con occhio critico il potere zarista, ma rifletteva su temi nodali. Come l’insorgere di un disagio forte che porta il protagonista di ‘Delitto e castigo’ a desiderare di sovvertire l’ordine sociale, uccidendo per trovare il proprio ruolo. E poi seguiva questa strada raccontando l’insorgere del nichilismo nei “Demoni”. Che poi, se pensiamo, oggi si è trasformato in un fenomeno di massa. Perché che cos’è questo occultare la verità se non un nichilismo diffusissimo nella politica, nel vivere sociale”.

Serve, quindi, una narrazione che sparigli le regole del gioco?

“È evidente che chi comanda serve le carte in tavola come vuole lui. Tocca a noi ribattere cambiando gioco. Dicendo che sul tavolo ci sono carte truccate. E come lo possiamo fare? Spostando la narrazione sulla realtà di una storia, quella della minaccia di sparire dalla Terra, che nessuno vuole raccontare”.

Lei dice che siamo la CIS generation, quella che si costringe a sorridere sempre…

“Una ragazza, tempo fa, davanti al mio stupirmi per questa tendenza di cercare sempre il sorriso, mi ha detto: ma allora non dobbiamo mai provare a essere un po’ felici? Ecco, il punto è proprio questo. La felicità non è fingere di non vedere come stanno le cose. Non è esorcizzare la catastrofe che rischia di spazzarci via. Quello che mi stupisce è la nostra mutazione antropologica, che parte proprio dalle fotografie”.

Siamo tutti maschere pronte a esprimere una falsa allegria?

“Un tempo non era così. Se guardiamo le vecchie foto, siamo in grado di capire subito lo stato d’animo delle persone che si facevano ritrarre. Non avevano tutti le labbra all’insù, o a forma di cuore. Se osservo le immagini di Beethoven, di Dostoevskij, non li vedo sorridere in ogni occasione. Ecco, mi chiedo: come mai, oggi, è quasi un malcostume non fare un sorrisone nelle fotografie, anche se il mondo ti sta crollando attorno? Forse non c’è proprio niente da ridere. Altrimenti, anche se io non amo affatto le tetraggine, rischiamo di trasformarci in automi incoscienti che continuano a ghignare anche quando il pericolo si sta avvicinando al massimo della sua potenza”.

Resta spazio per la speranza, c’è ancora il tempo per essere ottimisti?

“Se dobbiamo basarci solo sulle informazioni scientifiche che ci arrivano, sembrerebbe che non ci sia più spazio per la speranza. Perché, forse, abbiamo superato il limite da cui non ci è più concesso ritornare indietro. Ma io sono convinto che il pensiero razionale non riesca a dominare ogni parte della realtà. Ad esempio, la fisica che ci racconta della materia oscura che compone una parte dell’universo, di cui sappiamo ancora poco. Allora, io che non considero la vita come un teorema, e che amo la narrazione fiabesca proprio per quella cifra di irrazionale che contiene, a volte mi chiedo: possibile che sua davvero così? Forse la scienza ci stia prendendo in giro? O siamo diventati noi ciechi di fronte alla minaccia di scomparire? Così mi aggrappo alla nostra capacità metamorfica, di cambiare, di adattarci alle situazioni più estreme. Magari questa immane tragedia, quando si compirà, ci darà la possibilità di trasformarci. Non solo fisicamente, ma soprattutto mentalmente”.

Lo scrittore che diventa attore: come è andata?

“Quando mi hanno chiesto di essere io a fare il protagonista del film tratto dal mio libro ‘La lucina’ ho tentato in tutti i modi di sottrarmi. Però i due registi Fabio Badolato e Jonny Costantino sono stati irremovibili. Non si sono arresi davanti ai miei ‘no’. Così ho finito per accettare. Perché, in realtà, sono uno che ama il rischio, l’avventura. Mi piace confrontarmi con quello che penso di non saper fare. Altrimenti non avrei continuato a scrivere anche dopo i ripetuti rifiuti degli editori. Normale, comunque, che abbia recitato questa parte in maniera totalmente diversa da un attore. Ho portato i miei silenzi, le mie espressioni, la vita che ho trascorso. Certo che, quando mi vedo sullo schermo, sto male”?

Perché?

“Non sono abituato a vedere la mia faccia, il mio corpo, che non si muove nella realtà, ma in una storia di finzione scritta da me stessop. Anche se, oggi, un autore non si può più limitare a scrivere le sue storie. Deve accettare altre sfide, mettere i piedi, ogni tanto, fuori dal proprio mondo. In ogni caso, pensavo che la mia esperienza con il cinema fosse finita qui. E invece no”.

Ci ha preso gusto?

“Più che altro, i registi mi hanno fatto una proposta che non potevo rifiutare. Perché mi hanno chiesto di scrivere una sceneggiatura che immagini il mio amato Don Chisciotte tradendo l’impalcatura classica della storia e scaraventandolo nella contemporaneità. Portando alla luce tutta la forza, spesso incomprensibile, della ribellione che il personaggio porta dentro di sé. Così ho scritto un testo ambientato nella modernità. Speriamo di iniziare a girare entro la fine dell’anno prossimo. Questa volta, però, ci serve un produttore vero, perché questo non sarà un film povero come ‘La lucina’. Richiede finanziamenti più importanti”.

Già pensato agli attori?

“Vogliamo mettere assieme un cast di ottimo livello. Pensiamo di coinvolgere anche scrittori, amici, per far diventare questo film anche una testimonianza del nostro tempo. Per il ruolo di Dulcinea, che nella mia sceneggiatura ha un ruolo più esteso rispetto al testo di Miguel De Cervantes, abbiamo deciso di scritturare la pornostar Valentina Nappi. Non per scivolare su ‘Giovannona coscialunga’. Ma perché vogliamo creare una sorta di contraltare alla figura della donna idealizzata dallo scrittore seicentesco. Già nel mio libro ‘Canti del Caos’ avevo eletto la figura dell’attrice porno a mio personale Virgilio. Con lei viaggiavo nell’inferno della contemporaneità. E Valentina, che è una persona coraggiosa e intelligente, ha accettato con entusiasmo. Certo, mi rendo conto che, rispetto alla ‘Lucina’, quella del Don Chisciotte sarà una sfida assai più difficile”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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