Don Chisciotte era lì. Dentro l’occhio della cinepresa. E no, non era un bravo attore calato nei panni del personaggio di Miguel de Cervantes. Sotto lo sguardo di Jonny Costantino e Fabio Badolato, i due registi del film “La lucina”, c’era uno dei grandi scrittori italiani del nostro tempo: Antonio Moresco. Una voce irregolare, fuori rotta nel panorama letterario europeo. Ma anche, una figura assolutamente donchisciottesca. Il corpo magro, gli occhi che sembrano sempre pieni di visioni “altre”, il sorriso malinconico e gentile. Sì, non c’è dubbio: per il progetto di far rivivere sullo schermo il Cavaliere della Mancia, non c’era interprete migliore dell’autore nato a Mantova.
E allora? Semplice: prima di tutto i due registi hanno incassato un secco “no”. Anche perché, Antonio Moresco ne aveva già abbastanza dell’esperienza di attore nella versione filmica del suo romanzo “La lucina”. Freddo, stanchezza, imbarazzo, e un senso di inadeguatezza per chi non ha mai imparato l’arte della recitazione, lo avevano accompagnato in quella che pensava dovesse rimanere la prima e unica sua avventura nel mondo del cinema. E invece? Chi conosce lo scrittore dei “Canti del caos”, de “Gli increati”, sa bene quanto abbia amato, da sempre, un personaggio folle e attualissimo come Don Chisciotte.
Per farla breve, a Antonio Moresco rimaneva una sola via. Prima di capitolare davanti alle sirene scatenate dai due registi, doveva mettersi a scrivere. Affermando ad alta voce di esigere di occuparsi della sceneggiatura. Almeno quello poteva pretenderlo. È nato così, dall’urgenza della passione e dagli sguardi inquieti sul tempo che stiamo vivendo, un libro travolgente e originalissimo. Si chiama semplicemente “Chisciotte”, lo pubblica la casa editrice milanese SEM (pagg. 120, euro 15). E, tanto per non lasciare dubbi, porta impressa sulla copertina la faccia dell’autore stesso. Ma con tanto di cappello in testa che lo trasforma, in un dichiarato gioco di specchi, nel protagonista stesso del libro.
Ma che Chisciotte è quello di Antonio Moresco? Un personaggio comico e tragico. Un relitto arrivato dal passato in questo terzo millennio, che sta tentando di chiudere dentro una gabbia i sognatori. Che sta riaprendo i manicomi per imprigionare tra quelle pareti bianche le fantasticherie di chi non accetta di vivere incatenato alla realtà. Ma preferisce avventurarsi, appena può, oltre la soglia dell’immaginario. Del sogno.
Così, il Chisciotte di Antonio Moresco è sì l’ospite più indesiderato di una clinica per presunti sciroccati. Ma, per fortuna, si trova in ottima compagna. Visto che, in quel reparto, hanno cacciato a forza pure Emily Dickinson e Giacomo Leopardi, Herman Melville e la bambina dei fiammiferi, protagonista dio una popolarissima storia che lo scrittore mantovano ha ri-raccontato nel suo splendido libro “Fiabe da Antonio Moresco”. E, poi, c’è Dulcinea. Non la figurina di donna relegata nel ruolo di angelo irraggiungibile. Ma un gran pezzo di ragazza, ingabbiata dentro una mummificante camicia di forza fatta di gesso, che si rivelerà la porta d’accesso verso il mondo della ribellione al reale. Una via di fuga dove Chisciotte potrà ritrovare tutti i suoi amici sognatori, pronti a trasformarsi nell’esercito di cavalieri lanciati contro il muro della normalità.
“Mi sembrava che questo fosse il momento migliore, o peggiore, per far ritornare Don Chisciotte tra noi – dice Antonio Moresco -. Credo che, proprio adesso, tutti noi abbiamo bisogno di rompere molte barriere. Una è quella che separa il reale e l’immaginario. Ci servono storie che possano reinventare la nostra vita, non solo a livello personale, ma anche in senso collettivo. Intendo, di specie umana. Con il personaggio inventato da Miguel de Cervantes possiamo ridere e pensare. E capire che i confini del reale sono infinitamente più vasti rispetto a quelli che abbiamo creato, e che hanno finito per imprigionarci”.
Perché ha chiuso il Cavaliere della Mancia in un manicomio?
“Perché lì la metafora è portata al grado zero. La prigione bianca dove è rinchiuso il mio Chisciotte è quella dentro cui siamo rinchiusi tutti noi. L’abbiamo introiettata, ce la portiamo appresso in ogni istante della nostra vita”.
Accanto a lui ci sono scrittori, personaggi che lei ha sempre amato.
“Sono tutte figure di scrittori che amo molto. Da Fedor Dostoevskij a Herman Melville, da Giacomo Leopardi a Emily Dickinson. Ci sono anche personaggi che non ho inserito nei miei libri, ma che mi hanno sempre affascinato: il colonnello Thomas Edward Lawrence, conosciuto come Lawrence d’Arabia. Un sognatore che è stato ingannato e utilizzato dai servizi segreti britannici. Ma anche Louis Auguste Blanqui, non tanto per la sua utopia rivoluzionaria che gli costò moltissimi anni di prigione, bensì come autore di opere in cui analizzava la possibilità dell’esistenza di infinite dimensioni parallele. Sto pensando, ad esempio, a ‘L’eternité par les astres’. Ovviamente, non mancano Arthur Rimbaud e Franz Kafka, che mi sono stati vicini in tutto il mio percorso di vita e di letture. Io, alla fine, li farò incontrare con Chisciotte nelle vesti di cavalieri”.
Nel suo “Chisciotte’ ci sono il divertimento e la sofferenza?
“Indubbiamente mi sono divertito a scrivere questo libro. Anche in altri miei lavori c’era il registro del comico. Sto pensando ad alcuni passaggi di ‘Canti del caos’. Però qui è più evidente. Mi sono lasciato portare dalla voglia di guardare le cose con ironia. Però, il mio ‘Chisciotte’ è anche un romanzo tragico, commovente, epico”.
In realtà, l’idea originaria era quella di farne un film?
“Sì, dopo aver girato la versione cinematografica de ‘La lucina’, Jonny Costantino, che l’ha diretto insieme a Fabio Badolato, mi ha buttato là un’idea: ‘Ci piacerebbe fare un film su Don Chisciotte con te protagonista’. Io ho detto subito: no. Però, poi, mi è venuta voglia di scrivere la sceneggiatura. Ovviamente, il film è un progetto importante, che ha bisogno di trovare un produttore forte. Ecco, in attesa che quel progetto trovi la sua strada, il libro potrebbe servire da ariete per procurare i finanziamenti”.
Non volete fare un’opera di nicchia?
“No, assolutamente. Vogliamo fare un film potente, divertente, che parli a un numero grandissimo di persone. Quindi, siamo sicuri che il nostro futuro produttore non andrà incontro a un tracollo economico. Io, tra l’altro, ho anche indicato alcuni possibili attori per i diversi ruoli. Per esempio, Valentina Nappi nel ruolo di Dulcinea. Mi sembra una bella sfida affidare il ruolo della donna idealizzata da Chisciotte all’interprete di pellicole erotiche. Nel libro e nel film, ho voluto dare a quella che Cervantes riduceva a una piccola caricatura femminile una sua fisionomia forte, centrale. Poi, mi è venuta l’idea di proporre nei panni del primario, incarnazione della razionalità che annichilisce tutto, lo scrittore Walter Siti. Tiziano Scarpa, con la sua bella faccia veneta, lo vedo vestito da monaca mentre tenta di profanare il Cavaliere della Mancia con il cannello del clistere. Carla Benedetti, raffinata studiosa di letteratura, la vedo bene come statua vivente della Madonna”.
E poi?
“Ci sono Alessandro Baricco, Daria Bignardi, Lorenzo Mattotti. Mi piacerebbe che la troupe fosse una sorta di carovana di persone che si conoscono e si divertono lavorando insieme. Tra l’altro, tutti loro hanno già accettato le rispettive parti nel film. Proprio per realizzare un’opera per niente fredda, che racconti il nostro tempo attraverso i volti di persone famose. Riconoscibili”.
Il suo Chisciotte si fa portavoce di alcune idee espresse nel libro del 2018 “Il grido”?
“Credo che questo ‘Chisciotte’ non sarebbe mai nato se, prima, io non avessi scritto libri come ‘Il grido’, che racconta come tutta l’umanità stia nascondendo la testa sotto la sabbia per non ammettere che stiamo andando incontro alla catastrofe della nostra estinzione. Ma penso anche ad altri lavori, come ‘Lo sbrego’, dove i miei incontri con la letteratura, con i personaggi dei libri diventano un punto d’osservazione sulla vita e sulla morte”.
Il suo amore per le fiabe si sente tutto in questo “Chisciotte”…
“Don Chisciotte, come quasi tutti i grandi romanzi, ha un aspetto fiabesco. Penso a ‘Moby Dick’, ‘I miserabili’, ma perfino ‘I promessi sposi’. Poi, lui è l’unico personaggio della letteratura che ha una notorietà vastissima, come quella dei protagonisti delle favole. Rivaleggia con Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Biancaneve, figure universali come il Cavaliere della Mancia, che è diventato in fretta un emblema dell’essere uomo. Pochi anni dopo la pubblicazione del primo volume del capolavoro di Cervantes, la fantasia popolare aveva già trasformato quel tipo strano, alto e magrissimo in una maschera da vendere nelle fiere”.
I libri che ha pubblicato negli ultimi anni sfatano la leggenda di Antonio Moresco scrittore difficile?
“Ho scritto molti libri, come ‘La lucina’, ‘Gli incendiati’, ‘Fiaba d’amore’, che mi sembrano tutto meno che difficili. Ma qualcuno ha voluto cucirmi addosso la nomea di scrittore ostico, che non mi appartiene. Perché io vengo dal basso, da esperienze umane sotterranee. Mi sono avvicinato alla lettura, allo studio, da autodidatta. Ho patito questa definizione di autore complicato come fosse una camicia di forza. E credo che molti lettori si siano allontanati da me pensando che io fossi una sorta di erede delle avanguardie più cerebrali. Spero che, piano piano, questa maschera d’argilla che mi hanno appiccicato addosso si sgretoli”.
Bello trovare un editore come SEM, che crede molto nel suo lavoro?
“Ho pubblicato parecchi libri con Mondadori, a cui sono riconoscente. Però, come scrittore ho bisogno di condividere la mia avventura umana e letteraria con. persone che sento vicine. Per questo ho scelto una piccola grande casa editrice come SEM, che sta ripubblicando i miei vecchi libri con una veste grafica molto bella e curata. Preferisco stare su un vascello corsaro piuttosto che su una portaerei”.
Pochi mesi fa è uscito il suo “Canto degli alberi” per Aboca. Com’è nato?
“Posso dire che il ‘Canto’ è un libro inaspettato. Mi era stato chiesto da Antonio Riccardi, il poeta che dirige la collana Il bosco degli scrittori per Aboca, già da un po’. Però, nel frattempo ,ci siamo trovati a vivere la pandemia e il periodo di reclusione forzata. Anche la mia vita privata mi ha allontanato della casa in cui sono vissuto per quarant’anni. Mi sono trovato, all’improvviso, di nuovo nella città dove sono nato, Mantova. Con cui ho un rapporto complicato, drammatico. Tutte queste vicende mi hanno portato a scrivere un libro dove invento un dialogo con gli alberi murati, che crescono aggrappati alle case di città”.
Una storia di solitudine e musica?
“Musica dettata dalla presenza di un suono di pianoforte. E dall’immagine di queste manine che ne traggono note bellissime, capaci di accompagnarmi nella mia solitudine. A Mantova camminavo la notte per le strade, i vicoli, da solo e in silenzio. Ecco, da lì è nato il ‘Canto degli alberi’, un libro che non avrei mai potuto immaginare di scrivere nel corso della mia vita di ogni giorno, Ma che ha, come centro di gravità, una figura donchisciottesca”.
Ogni suo libro ha radici che si allungano verso quelli precedenti?
“Il mio percorso letterario è fatto di apparizioni, di storie, di figure che sono connesse tra loro. Ogni mio libro, almeno in parte, è la prosecuzione di un viaggio che ho iniziato in quelli precedenti. E poi, con una battuta, voglio dire che non sono capace di scrivere romanzi con la mano sinistra. Tutte le mie opere hanno un senso forte, un’urgenza di essere portate sulla carta. Come se di mani ne avessi soltanto una: la destra”.
<Alessandro Mezzena Lona