• 20/07/2021

Paolo Nori: “Dostoevskij, una ferita ancora aperta. Dopo 43 anni”

Paolo Nori: “Dostoevskij, una ferita ancora aperta. Dopo 43 anni”

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Aveva quindici anni, Paolo Nori. E ricorda tutto di quando prese in mano “Delitto e castigo” di Fëdor Dostoevskij per iniziare a leggerlo. La stanzetta all’ultimo piano della casa di campagna, l’ora precisa del giorno, lo stupore di quello che stava succedendo. Il pulsare del sangue dentro le vene. E una domanda che gli girava in testa. La stessa che si pone Raskol’nikov, il protagonista: “E io, sono come un insetto o sono come Napoleone?”.

Da allora, sono passati 43 anni. E la ferita, quella ferita aperta dentro Paolo Nori dalla lettura di “Delitto e castigo” non ha mai smesso di sanguinare. Tanto da spingerlo, poi, a decidere di prendere una laurea in Letteratura russa. E portarlo, anni dopo, a incamminarsi pure lui sui sentieri della letteratura. Imboccando subito la strada giusta con il romanzo “Bassotuba non c’è”, pubblicato nel 1999 da una piccola casa editrice come DeriveApprodi, ma ripreso già l’anno dopo da Einaudi Stile Libero. Perché, nel giro di pochi mesi, si era meritato il giudizio critico di libro-rivelazione. Capace di tracciare un profilo netto della generazione condannata a un eterno precariato emotivo e lavorativo senza mai negarsi la forza dell’ironia, della dissacrazione.

Ma quella ferita aperta da “Delitto e castigo”, prima o poi, doveva portare Paolo Nori a confrontarsi con il mondo di Fëdor Dostoevskij. E, di conseguenza, anche con se stesso. Proprio per questo non stupisce che, durante i mesi lunghissimi e asfittici del primo corpo a corpo con il Covid 19, lo scrittore nato a Parma, che vive a Bologna, abbia deciso di scrivere proprio quel libro. E che abbia scelto come titolo “Sanguina ancora” (Mondadori, pagg. 287, euro 18,50), ritornando con la memoria ai giorni dei suoi quindici anni.

Dopo aver letto “Sanguina ancora”, la Giuria dei Letterati del Premio Campiello, presieduta quest’anno da Walter Veltroni, non si è lasciata cullare troppo dai dubbi. Chiedendosi se un libro come quello di Paolo Nori fosse adatto, o meno, a entrare nella cinquina dei finalisti della 59.a edizione. Insieme a Carmen Pellegrino con “La felicità degli altri” (La nave di Teseo), Andrea Bajani con “Il libro delle case” (Feltrinelli), Paolo Malaguti con “Se l’acqua ride” (Einaudi) e Giulia Caminito con “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani). La serata finale si terrà, per la prima volta, all’Arsenale di Venezia sabato 4 Settembre.

In realtà, Paolo Nori non ha mai pensato di scrivere un saggio su Fëdor Dostoevskij. Proprio perché il coinvolgimento che ha provato alla prima lettura di un suo romanzo l’ha seguito anche quando, poi, è andato a cercare le altre opere dello scrittore nato a Mosca nel 1821 e morto a San Pietroburgo nel 1881. Piuttosto, ha voluto comunicare comunicare ai lettori di “Sanguina ancora” quel senso forte di prossimità con il mondo di un autore apparentemente lontanissimo nel tempo. Ma che appare ancora capace di bruciare le distanze, di annullare le differenze. E di farci dimenticare che il grande Fëdor non corrispondeva affatto ai canoni estetici di chi miete successo oggi. Calvo ben prima di diventare vecchio, goffo, ingobbito, giocatore incapace e incallito, marito non sempre all’altezza della situazione, condannato a morte per un episodio surreale, ritornato alla vita quando ormai temeva di sentir esplodere la scarica di fucile del plotone d’esecuzione.

Raccontando Fëdor Dostoevskij, e la sua vita che assomiglia a un romanzo, Paolo Nori ripercorre il divenire della grande letteratura russa e la sua contraddittoria Storia, dalla tirannia degli zar fino alla rivoluzione bolscevica, alla dissoluzione dell’Urss, all’ingresso in un nuovi sistema autoritario. Senza mai dimenticare che c’è lui, lo scrittore di “Bassotuba non c’è, di “Spinoza”, di “Diavoli” di “Grandi ustionati”, a muovere i fili della narrazione. Infatti, non mancano pagine intense e godibili che spalancano l’orizzonte sulla vita privata dell’autore emiliano. Portando sotto le luci della ribalta personaggi che, in parte, i suoi lettori già conoscono, come Togliatti e La Battaglia.

Giorgio Manganelli parlava di ciclici attacchi di “leggere i russi”. Per lei questa “malattia” non è mai passata, visto che sanguina ancora?

“Giorgio Manganelli scrive che «Leggere i russi è un’esperienza che molti fanno nell’adolescenza, più o meno al tempo delle sigarette e dei primi, sani desideri di scappare di casa e andare a fare il mozzo. Di questi desideri i «russi» sono i più tenaci, e se poche sono le possibilità che ci si dedichi a correre lungo i moli in cerca di un brigantino, assai minori sono quelle di liberarsi di un Dostoevskij una volta che vi è entrato nel sangue. Ma non è solo lui; non esistono disintossicanti per Gogol, ed è molto più facile dimenticare il numero del telefono del primo amore, che la prima lettura della ‘Sonata a Kreutzer ‘di Tolstoj, o della ‘Steppa’ di Čechov». Io, sottoscrivo”.

Il suo Dostoevskij è un gigante pieno di difetti, di mancanze. Solo accettando l’uomo che è stato si può amare davvero uno scrittore?

“Non necessariamente. Prendiamo Gogol’: ‘Le veglie alla fattoria vicino a Dikan’ka’, ‘Taras Bul’ba’, ‘I racconti di Pietroburgo’, ‘Il revisore’ e la prima parte di ‘Anime morte’ mi sembra siano capolavori frutto di un talento forse impareggiabile. Quando, pochi anni prima di morire Gogol’ pubblica ‘Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici’, nel quale tiene a mettere in chiaro che lui è favore della servitù della gleba, cioè a favore della schiavitù, e nel quale dice che tutte le sue opere precedenti non valgono niente, e nel quale assume un tono retorico faticosissimo, insopportabile, questo smascheramento, del Gogol’ uomo, se così si può dire, non intacca minimamente, secondo me, il valore delle opere precedenti di Gogol’. Io, che pure ho letto i ‘Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici’, e mi hanno fatto orrore, resto comunque un grande ammiratore delle opere di Gogol’ perché ha ragione Manganelli: non esistono disintossicanti per Gogol’, nemmeno Gogol’ stesso”.

Perché lo sentiamo ancora così vicino, questo uomo goffo, calvo, vecchio prima del tempo?

“Io non mi sento particolarmente vicino a Dostoevskij, non so se vorrei conoscerlo di persona, se mai fosse possibile, ma mi sento vicino ad alcuni dei suoi personaggi. In una conferenza del 1922, André Gide dice che «Un letterato che si cerca corre un gran rischio: corre il rischio di trovarsi. Non scrive più, da quel momento, che opere fredde, conformi a se stesso, risolute. Imita se stesso. Se conosce le proprie linee, i limiti suoi, è per non oltrepassarli più. Non ha più paura di essere insincero: ha paura di essere inconseguente. Il vero artista, invece», secondo Gide, «resta sempre per metà incosciente di se stesso, quando produce. Non sa con precisione chi è. Non giunge a conoscersi che attraverso la sua opera, che per mezzo della sua opera e in seguito alla sua opera… Dostoevskij non si è mai cercato, si è perdutamente dato nella sua opera». È come se Dostoevskij non fosse mai stato sicuro di sé, per tutta la vita, come se, alla domanda che rivolge al sé stesso ventitreenne, nella primavera del 1845, sulla prospettiva Nevskij, appena sceso dall’appartamento di Belinskij, che gli ha appena detto che lui, Dostoevskij, è il più grande scrittore vivente, e Dostoevskij, sceso per strada, si è chiesto: «Ma davvero sono così grande?», è come a questa domanda Dostoevskij non fosse mai riuscito a dare una risposta, per nostra fortuna. L’effetto che questa mancanza di orientamento di produce è abbastanza straordinario, è quella «eliminazione della distanza tra il soggetto (il lettore) e l’oggetto (l’autore), in forza della quale Dostoevskij risulta il più familiare di tutti gli scrittori contemporanei, e, forse, anche di quelli futuri, di tutti gli scrittori possibili», come scrive un altro grande critico russo, Vasilij Rozanov «È» continua Rozanov «una cosa incomparabilmente superiore, più nobile, più enigmatica, più significativa delle sue idee. Le “idee” possono essere tante, così come le “strutture”, ma il tono, di Dostoevskij, è un miracolo psicologico. Di idee voi ne avete avute, e sono passate… Ma le sue idee, anche quelle passate, sono delle strade.  Ecco perché tutte le idee di Dostoevskij possono passare, o rivelarsi false, o voi potete smettere di essere d’accordo con lui; e se succede, l’autorità spirituale di Dostoevskij non diminuisce per niente. E questo: è un miracolo». Questa cosa di cui parla Rozanov, questa mancanza di distanza, io l’ho sentita fin dal primo incontro con le opere di Dostoevskij, quando, alla domanda che Raskol’nikov (non Dostoevskij, Raskol’nikov) rivolge a se stesso «Ma io, sono come un insetto o sono come Napoleone» io mi sono fermato nella lettura e mi sono chiesto «E io? Come sono? Sono come un insetto o sono come Napoleone?». E ho avuto l’impressione, avevo 15 anni, che quel libro scritto 112 anni prima a tremila chilometri di distanza avesse aperto dentro di me una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare e, sono passati 43 anni, sanguina ancora”.

Raccontare uno scrittore che si ama molto è sempre un’impresa assai complessa. C’è riuscito riflettendo anche sul suo rapporto con la vita e la letteratura russa?

“Quando ventidue anni, fa, ho passato 77 giorni in ospedale perché ero ustionato, e sono stati i giorni più dolorosi della mia vita, io, dentro la testa, mi ripetevo un verso di Pasternak: «Vivere una vita non è attraversare un campo», verso che mi sembra di aver capito davvero solo in quei giorni così dolorosi. La letteratura russa è, per me, il principale strumento per capire quello che mi succede, e quello che mi succede è uno strumento per capire la letteratura russa, so di non essere tanto normale ma è andata così”.

Nell’incipit di “Bassotuba non c’è”, uno dei suoi libri più belli, voleva già rendere omaggio alle “Memorie da una casa di morti”?

L’inizio di ‘Bassotuba non c’è’ è in relazione a una canzone di Gianni Morandi”.

Sorpreso di essere entrato con questo libro in un Premio come il Campiello, che predilige i romanzi d’invenzione?

“Non credo che oggi ci sia così tanta differenza tra letteratura d’invenzione e letteratura del fatto, come la chiamavano in Russia cento anni fa; non sono l’unico, tra i cinque vincitori del Campiello, a non aver scritto una fiction ma qualcosa che deriva da personaggi reali e fatti realmente accaduti, come si dice, e, a pensarci, devo dire che faccio fatica a tracciare una linea precisa; nel mio libro si raccontano cose che qualcuno ha detto che sono successe ma chissà, se sono successe davvero tutte”.

In “Sanguina ancora” racconta di Antonio Pennacchi e dei suoi consigli. Ma non crede che lei qualche buon libro l’aveva già scritto prima di questo?

“Sa che credo che anche Pennacchi la pensi così?”.

Dopo “Che dispiacere” pensa di amare il genere poliziesco un po’ di più?

“Che dispiacere è, forse, il primo vero giallo che ho scritto, ed è un libro che deriva da una passione (un po’ tardiva) per il genere poliziesco, come lo chiama lei, non il contrario: non è che la passione per il poliziesco venga da ‘Che dispiacere’, ‘Che dispiacere’ è il frutto di quella passione”.

Quando ha capito che la scrittura sarebbe stata al centro della sua vita?

“Nel 1996 ero responsabile amministrativo di una jont-venture franco italiana, nel sud della Francia, posavamo un metanodotto, ci ho lavorato quattro mesi poi un mattino mi sono chiesto quanto mi interessassero i metanodotti. Mi sono risposto Poco. E ho dato le dimissioni. E ho trovato il coraggio di provare a fare un mestiere che mi piacesse, di provare a inventarmi un lavoro che non fosse una prigione, ma una benedizione, di provare a fare di una mia passione, la letteratura, il mio mestiere, e ho cominciato a scrivere, tutti i giorni. E sono passati 25 anni e non ho ancora smesso”.

Libri, altrui e propri, il tifo per il Parma, e poi? Ci sono altri grandi amori?

“Sì”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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