• 29/07/2022

Fabio Bacà: “Nova, il coraggio di non fuggire dal lato oscuro”

Fabio Bacà: “Nova, il coraggio di non fuggire dal lato oscuro”

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Un romanzo d’esordio che conquista la casa editrice meno disposta a rischiare sugli esordienti: Adelphi. Un secondo libro che mette d’accordo le giurie dei due più importanti premi letterari italiani: Strega e Campiello. Eppure, Fabio Bacà continua a dire che si sentirà davvero uno scrittore soltanto quando uscirà la sua quinta opera. E non lo fa per falsa modestia. Prova ne sia che lui, fino a 37 anni, ha preferito tenersi alla larga dalla scrittura. Perché non si sentiva pronto. E temeva di sfigurare al cospetto dei grandi maestri della letteratura contemporanea, di cui continuava a leggere avidamente le opere.

Insicurezze a parte, il percorso letterario di Fabio Bacà, finora, è stata una marcia trionfale. Nel 2019, quando è uscita per Adelphi la sua opera prima “Benevolenza cosmica”, la critica non ha fatto fatica a riconoscere nello scrittore di San Benedetto del Tronto, che vive a Alba Adriatica in Abruzzo, una voce originale. Tanto da autorizzare qualcuno a ricordare la “primavoltità” tanto cara a Roberto “Bobi” Bazlen, l’instancabile lettore triestino, coltissimo suggeritore e arcano burattinaio della casa editrice milanese. Ovvero, quell’originalità che porta a leggere certe opere letterarie come se fossero davvero la prime a mettere in mostra uno stile, una lingua, una felicità di racconto, del tutto personali e non canonizzati.

Fabio Bacà ha superato a pieni voti anche le forche caudine dell’opera seconda. Perché “Nova” (Adelphi, pagg. 279, euro 19) ha fatto il pieno di recensioni positive e di apprezzamenti dei lettori. E poi, dopo il sesto posto nella finale della Strega, è pronto per contendere la vittoria del Premio Campiello a Antonio Pascale con “La foglia di fico” (Einaudi), a Daniela Ranieri con “Stradario aggiornato di tuti i miei baci” (Ponte alle Grazie), a Elena Stancanelli con “Il tuffatore” (La nave di Teseo), a Bernardo Zannoni con “I miei stupidi intenti” (Sellerio). La serata delle premiazioni si terrà sabato 3 settembre al Teatro La Fenice di Venezia.

L’uomo attorno a cui ruota la storia di “Nova”, Davide, è un neurochirurgo che ha esplorato a fondo i misteri del cervello. Ma non ha mai trovato il coraggio di sondare i corridoi più inaccessibili e oscuri della propria mente. Vive in una sorta di sereno equilibrio instabile con la moglie Barbara, vegetariana convinta ossessionata da numerose idiosincrasie alimentari, e con il figlio Tommaso, alle prese con la più normale sindrome da età dell’adolescenza. Ma bastano alcuni episodi secondari della sua quotidianità, come una futile lite a un semaforo o una diatriba combattuta a distanza con il vicino di casa, che si diverte a sparare la musica a tutto volume, per far traballare il suo precario castello di certezze.

Un giorno, al ristorante, Davide è costretto a confessare a se stesso che l’equilibrio al quale ha affidato il governo della propria vita è soltanto un muro fatto di cartone. Quando Barbara viene avvicinata e molestata da un uomo al ristorante, lui assiste impotente alla scena, senza sognarsi minimamente di accorrere in suo aiuto. Anche perché, nel frattempo, è già intervenuto uno sconosciuto. Un uomo capace di immobilizzare e sbeffeggiare l’aggressore con alcuni gesti ispirati da un uso controllato della rabbia e della violenza.

Andare alla ricerca di Diego, il misterioso salvatore, diventerà presto per Davide un’ossessione. E con quello strano monaco, che ha attraversato i passaggi più impervi della vita per poi elaborare una sua filosofia sullo stare al mondo, lo porterà a scoprire il potere più grande che è stato dato all’uomo: quello della violenza. Che, solo in parte, è per noi “un fatto emotivamente alieno”. Ma che in realtà, seguendo un preciso addestramento iniziatico, può diventare una vera e propria arma segreta da utilizzare al momento opportuno.

“I miei personaggi sono soprattutto vicini a me che scrivo – dice Fabio Bacà, che ha conquistato la critica grazie a uno stile di racconto teso, una lingua ricercata e precisa, un ritmo narrativo capace di incalzare senza diventare asfissiante -. Io sono una persona assolutamente comune. Nei gusti, nei comportamenti. Sono abitudinario, non amo le esperienze estreme. Per dire: a cinquant’anni non avevo mai visto Venezia, prima di arrivarci per una delle presentazioni del Premio Campiello. Di conseguenza mi piace che gli eventi particolari che i miei personaggi si trovano a vivere capitino nel bel mezzo di una vita tranquilla. Anche perché credo di riuscire a immaginare, e quindi comprendere meglio, le loro reazioni”.

Però i suoi personaggi fanno mestieri diversissimi dal suo?

“Nel primo romanzo, ancora inedito, il protagonista è uno scrittore. Mentre Kurt O’Reilly di ‘Benevolenza cosmica’ ha a che fare con la statistica e Davide di ‘Nova’ è un neurochirurgo. Io non sono uno che capisce molto né di statistica né di scienza o di medicina. Ma volevo scoprire anche mestieri nuovi. E immaginare una storia che fosse in contrasto con la solidità matematica o scientifica dei personaggi”.

Sono gli imprevisti della storia, poi, che stravolgeranno le loro vite?

“Sì, perché quello che capita sia a Kurt che a Davide è del tutto inaspettato. Ed è ancora più appassionante mettere a confronto con problemi imprevedibili delle persone non particolarmente virtuose, eccezionali, bensì normali. Con i loro difetti, le mancanze che accompagnano tutti noi”.

Ha studiato molto per capire come immedesimarsi in un neurochirurgo?

“In origine il romanzo era molto più lungo. Avevo inzeppato la storia di tanti aneddoti, anche inutili, che raccontavano il mestiere del neurochirurgo. Anche perché, prima di iniziare a scrivere, mi ero appassionato leggendo diversi libri di divulgazione sulle neuroscienze. E come tutti i dilettanti volevo dare voce a questo mio innamoramento. Poi, però, ho capito che la prima versione del libro era troppo ridondante e ho cominciato ad asciugarlo. All’inizio, il protagonista era un professore di neuroscienze. Poi Daniele è diventato neurochirurgo. Anche perché, in questo modo, il suo essere medico mi concedeva maggiori possibilità di movimento soprattutto nella parte finale”.

Nel prologo scrive che la “violenza ci è emotivamente aliena”. Perché?

“Tutto il sovradosaggio di violenza che ci arriva addosso tramite i giornali, i social, i mezzi di comunicazione di cui disponiamo, da una parte ci appare molto lontano. Accendo la tivù, mi collego a internet, ma le atrocità in cui mi imbatto sono fuori dal mio spazio quotidiano. Anche perché se dovessi provare empatia per tutto quello che vedo e sento, finirei in preda alla depressione per 24 ore al giorno. Però, accade anche che la violenza valichi la distanza ed entri nel perimetro della tua vita. Quando è capitato a me, poche volte per fortuna, il mio sconvolgimento è stato totale. Mi mancavano i meccanismi emotivi per affrontare, e poi metabolizzare, l’evento”.

Diego, nel libro, dice che il problema sta proprio lì…

“Sì, perché abbiamo perso il contatto con la nostra parte più selvaggia. Più intuitiva, più animalesca. L’eccesso di civilizzazione ha prodotto una separazione tra la ragione, indispensabile, e il nostro istinto. E proprio quest’ultimo l’abbiamo sepolto troppo in profondità dentro di noi”.

Luce e ombra, bene e male: impossibile separarli?

“Prima di sperimentare la meditazione ho letto tanto. Pur sapendo che devi praticarla più che affrontarla in modo teorico. L’aspetto, però, che mi ha impressionato è che tutti i maestri ripetono sempre la stessa cosa: quando tu scendi davvero nella parte più profonda di te stesso, quasi sempre capisci che non sarà un viaggio piacevole. Ed è necessario metterlo in chiaro subito, altrimenti saremo sempre esseri incompleti. Che tendono verso la luce con la paura di esplorare il proprio buio. Del resto, i taoisti lo dicono con grande limpidezza: non c’è luce senza buio e non si può pensare di raggiungere il piacere senza sperimentare il dolore. Il dualismo è l’essenza stessa del nostro mondo. Nessuno di noi è soltanto buono, o soltanto cattivo”.

Questo strano monaco-maestro scompiglia la vita di Davide come l’ospite misterioso di “Teorema” di Pier Paolo Pasolini?

“Nel 2019, quando è uscito ‘Benevolenza cosmica’, mi hanno fatto un’intervista per un giornale locale marchigiano. In una delle risposte raccontavo di essere al lavoro su un romanzo nuovo. Infatti, ‘Nova’ ho cominciato a scriverlo quattro anni fa. E dicevo che sarebbe stato un incrocio tra ‘Fight Club’ di Chuck Palahniuk e ‘Teorema’ di Pier Paolo Pasolini”.

In tutti e due i casi un misterioso personaggio porta lo scompiglio all’interno di una famiglia in equilibrio precario.

“Avevo 15 anni la prima volta che ho letto ‘Teorema’. E non ci ho capito niente. Poi ho visto il film, ma soltanto in parte, e anche lì non capivo bene se questo misterioso ospite era un angelo o cos’altro. Però trovavo affascinante, già allora, l’idea di un personaggio che entra nella routine di una famiglia e la scompagina letteralmente. In quel caso, l’ospite mandava tutto all’aria usando il proprio corpo, la sessualità, in un rimando pasoliniano continuo al concetto del sacro. A me, invece, interessa di più capire che cosa accade nella psiche dei miei personaggi quando si trovano a dover affrontare qualcosa di perturbante”.

Anche Diego, come l’ospite, arriva inaspettato e toglie certezze alla famiglia?

“Sì, Diego interviene in un ristorante per difendere Barbara da un molestatore. E lo fa dandogli una lezione indimenticabile proprio sul piano fisico. Usando una violenza controllata. Davide, che assiste alla scena ma non è capace di prestare soccorso alla moglie, andrà poi a cercare il misterioso salvatore. E inizierà con lui un percorso per impadronirsi del Potere, del controllo della violenza. Allontanandosi in maniera drastica da tutte le certezze che, fino a quel momento, avevano regolato in maniera illusoria la sua vita”.

Il primo romanzo, a cui accennava prima, è ancora inedito?

“Quando l’ho presentato al Premio Calvino, mi hanno dato un consiglio: per iniziare scriva qualcosa di più semplice. Lo consideravano, infatti, troppo lungo e ambizioso. Così, l’ho lasciato da parte e aspetto di vedere se arriverà il momento giusto per rimetterci mano”.

Ha iniziato a riempire quaderni di racconti quand’era ragazzino?

“A scuola ero bravo nei temi di italiano. Però, per anni, ho rimandato il confronto con la scrittura perché non mi sentivo pronto. Forse perché i miei riferimenti letterari sono sempre stati molti alti: Philip Roth, Don DeLillo, David Foster Wallace, Martin Amis, Umberto Eco. Per questo continuavo a dirmi: non arriverò mai neanche a un decimo della loro bravura. Così mi sono tenuto alla larga dall’idea di pensare un romanzo mio. Il primo è arrivato che avevo già 37 anni”.

Un rifiuto della letteratura che ricorda quello di Italo Svevo?

“Sì, ma lui si era allontanato dalla scrittura dopo la cocente delusione di vedere i propri romanzi ignorati da tutti. Io non mi sono cimentato proprio per paura di non essere all’altezza. Mi dicevo: non sei capace. E non mi aiutava il fatto di essere anche molto ambizioso. Così, ho rimandato e rimandato. A 37 anni ho capito che dovevo provare: ero disoccupato, non avevo una fidanzata, tempo ce n’era a sufficienza”.

Lei, adesso, è un istruttore di ginnastiche dolci?

“Sì, insegno gli esercizi che non servono a diventare più muscolosi o più magri. Ma aiutano a migliorare l’elasticità della muscolatura e la mobilità degli arti. Di solito arrivano da me soprattutto persone anziane, ma non solo”.

Ha fatto la doppietta Strega-Campiello: come vive quest’avventura?

“Con gioia e grande responsabilità. Anche se non posso farci niente, perché sono le giurie che assegnano i voti, che decidono chi vince. Quando è arrivata la conferma che ero entrato nella cinquina dei finalisti al Campiello, al telefono non riuscivo a dirlo a mia madre. Tanto grande era la mia emozione. Perché essere selezionati dai due più importanti premi nello stesso anno è davvero qualcosa di irripetibile. In ogni caso, resto un grande insicuro. Non mi considererò uno scrittore fino a quando non avrò pubblicato il mio quinto libro”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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