• 02/08/2022

Antonio Pascale: “Le piante raccontano chi siamo”

Antonio Pascale: “Le piante raccontano chi siamo”

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Si può passare davanti a un albero, a una pianta, e accorgersi solo della sua presenza. Dell’immobilità, del silenzio, dell’assenza di strumenti di comunicazione. Oppure ci si può interrogare sulla loro capacità di resistere ai cambiamenti climatici, alle tempeste d’acqua e alla neve che tutto copre, al sole che splende in cielo implacabile e all’oscurità della notte che semina inquietudini.E, allora, è proprio dalle domande su esseri viventi che spesso stanno lì da centinaia di anni che riaffiorano le storie. Che ritornano a parlarci i simboli, perché nei misteri della botanica possiamo riconoscere un’interfaccia capace di riflettere il nostro modo di essere, il coraggio e la vigliaccheria, il desiderio di essere amati e l’incapacità di amare, la capacità di resistere e la fragilità dell’insicurezza.

Antonio Pascale è partito da lì. Da dieci storie legate ad altrettanti alberi e piante. Ai loro segreti e a quello che hanno sempre simboleggiato. In una sorta di botanica dei sentimenti e dei sogni, dei ricordi e delle illusioni, dei traguardi raggiunti e della delusioni, ha costruito il percorso de “La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini” (Einaudi, pagg. 291, euro 20), il romanzo selezionato tra i cinque finalisti del Premio Campiello 2022. Uscito con la benedizione e il massimo dei voti  dalla riunione della Giuria dei Letterati, a fine maggio a Padova, si giocherà la vittoria della sessantesima edizione, sabato 3 settembre al Teatro La Fenice di Venezia, con Fabio Bacà e il suo “Nova” (Adelphi), Daniela Ranieri e “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” (Ponte alle Grazie), Elena Stancanelli e “Il tuffatore” (La nave di Teseo), Bernardo Zannoni e “I miei stupidi intenti” (Sellerio).

Dieci alberi, dieci capitoli. E un uomo, al centro del romanzo, che ha bisogno di ricordare sempre per non lasciar svanire la memoria, che non è mai capace di credere nella propria preparazione, nel percorso di studi e di apprendimento che ha fatto. Un personaggio che, passando di albero in albero, ritorna costantemente a rileggere il proprio passato, ricordando gli anni dell’adolescenza, la famiglia, gli amici, le donne amate. Una figura forte eppure fragile, che mentre ripercorre i passi della propria esistenza non può fare a meno di associarli e quello che ancora oggi simboleggiano gli alberi, presenze costanti nel suo mondo di esperto per il ministero dell’agricoltura. Così, il fico racconta il lato spinoso del mondo femminile, il faggio riassume in sé la compassione per le anime in pena, il pino squaderna davanti agli occhi di tutti i suoi tentativi di immortalità, la quercia e il leccio diventano paradigma della forza della vita e della maledizione della forza stessa, gli agrumi portano dentro di loro il mistero del viaggio.

“Negli anni ho cominciato a pensare – annota Antonio Pascale ne “La foglia di fico”, scritto con linguaggio musicale, immaginifico eppure netto, mai ridondante o fuori controllo – che qualunque strada si possa intraprendere per la felicità, questa debba necessariamente passare per una pineta. Una pineta da attraversare e un mare da raggiungere”. E in questo romanzo meticcio, lo scrittore, che i lettori hanno imparato ad amare con “La manutenzione degli affetti, “Le attenuanti sentimentali”, “Le aggravanti sentimentali”, costruisce un viaggio fatto di storie e ricordi, di delusioni e momenti di gioia, di un continuo interrogarsi sulla complessità di esistere. Senza mai dimenticare che gli uomini sono pieni di contraddizioni e di una spasmodica voglia di stare al mondo. Proprio come gli alberi.

“Il mio è un romanzo composto da 10 racconti – spiega Antonio Pascale, che è nato a Napoli, vive e lavora a Roma, ma ha trascorso parte della sua vita a Caserta -,  ogni racconto ha una pianta come punto cardinale. Il motivo è semplice: le piante, per varie ragioni, contengono dei simboli che raccontano chi siamo e come succede alle nostre vite. Dieci piante, dieci simboli, dieci storie. Per il resto, cerco solo di raccontare le varie sfumature del nostro io, e alcune dinamiche che ci caratterizzano. Siamo variopinti, passiamo parte della giornata a commentare i fatti, un’altra parte a contestare alcune cose e la restante parte a fare le stesse cose che contestiamo. Usiamo molti strumenti per indagare o giustificare noi stessi e gli altri, siamo insomma composti da parti saggistiche, narrative, descrittive, ecc. Niente di più normale che tutto questo passi in un romanzo, come è sempre stato del resto”.

Nel romanzo c’è il tormentone del protagonista che pensa di scrivere un saggio. È nato da lì il libro, da un saggio mancato sulla botanica?

“Fino a 4 anni non ho parlato, mi esprimevo per suoni onomatopeici, non so, lo zucchero era ding ding. Poi ho balbettato fino a 15 anni circa. In compenso stravedevo, antropomorfizzavo tutto, quindi un palazzo era un volto, le finestre occhi e così via. Accadeva lo stesso per le piante: la quercia era un uomo a braccia aperte che mi aspettava in un campo per abbracciarmi. Quando ho ricominciato a parlare ho perso le visioni, ma durante il primo lockdown, una mattina, era prestissimo, sono sceso e mi sono trovato davanti a un ciliegio fiorito: incredibile, il giorno prima era spoglio (si era alzata la temperatura quel tanto che bastava per avviare la fioritura, una caratteristica del ciliegio). Sono successe due cose: ho ricominciato a balbettare per una settimana e ho avuto delle visioni, o meglio mi sono venuti alla mente alcuni ricordi legati alle piante. Erano tutti ricordi che riguardavano la prima volta che ho sentito qualcosa. La prima volta che ho sentito la felicità? Da bambino sdraiato su un covone di grano che mio padre aveva costruito.. Erano – li ho contati – dieci ricordi, associati a dieci piante e ho pensato, vista la situazione, che questi dieci ricordi erano quelli elementari, essenziali, completi, quelli che probabilmente avrei ricordato prima di morire. Ho scoperto poi, indagando un po’ e chiedendo in giro, che non erano solo i miei ricordi, ma inquadravano un immaginario, erano ricordi collettivi. Così è venuta fuori La foglia di fico: dieci piante, dieci simboli, dieci racconti che ragionano attorno al tema dei primi ed elementari conflitti, quelli che poi costruiranno identità, storie, culture e così via”.

Il protagonista ha sempre bisogno dei ricordi, del confronto con il passato, per riallineare il suo presente?

“Sono racconti con un arco narrativo molto ampio, i personaggi raccontano le storie in un arco di 40/50 anni, cercando di capire come è andata. Contemporaneamente c’è anche una riflessione sulla qualità del nostri ricordi e su come essi si formano, a me è sembrato in un modo a te in un altro: altro non siamo che la nostra memoria, lì c’è la base di tutto, gli amori, le sofferenze, le sconfitte, le cadute, i traguardi, ecc.”.

Un esperimento di romanzo mutaforma l’aveva già fatto nel suo primissimo libro?

“Che dire? Sono storie, delle favole moderne, cerco di disegnare un percorso insolito, non convenzionale, come appunto una passeggiata in un bosco, durante la quale procedi zigzagando, tra luci e ombre, rovi e spine, dolcezze improvvise, sprazzi di luce e di cielo, tensioni e buio che ti prende alle spalle. La passeggiata nel bosco, per via del percorso accidentato e non così ovvio, secondo me simula benissimo la nostra passeggiata nella vita. Tutto qui, la forma invece di disegnare un percorso solito, ne disegna un altro, più tormentato e contorto, ma per questo, almeno spero, più vitale”.

Il protagonista odia le saghe familiari, i romanzi dallo schema sempre uguale. Si direbbe che lei condivida questo pensiero.

“Sì, non fanno per me. Voglio dire, ho 56 anni, non riesco a credere a patti narrativi tra scrittore e lettore basati su convenzioni letterarie ottocentesche. Non ci credo quando lo scrittore dice: lui strabuzzò gli occhi… Ma chi è questo scrittore? Che finge di conoscere tutti i movimenti dei suoi personaggi, che ricostruire genesi dei dolori e intrecci e intrighi? Uno scrittore così sicuro e onnisciente, che poi a malapena sa definire un proprio stato d’animo. Perché dunque è così sicuro quando dice che il protagonista strabuzza gli occhi e attribuisce a quel gesto un preciso significato? Io sono ateo, non credo agli dei, né agli scrittori dei, credo solo nella fragilità, nell’inadeguatezza, nell’angoscia esistenziale come ferita primordiale e nei ricordi fallaci, e credo nei tentativi fatti, con molto sforzo, di ragionare su questa angoscia. Per questo, come lettore, cerco storie diverse e come scrittore ci penso un po’ quando scrivo”.

Potremmo definire “La foglia di fico” un libro contro le mode, non solo letterarie?

“Un libro fuori dai soliti flussi turistici”.

La natura non è Disneyland, ma l’uomo fa fatica a capirlo. Ci riuscirà prima che sia troppo tardi?

“Nella natura cerchiamo l’immortalità, ce l’hanno promesso, no? Torneremo nel giardino fatato e incantato, a patto che non ci facciamo troppe domande e abbassiamo la testa e rispettiamo le superiori indicazioni, pena la mortalità e la vergogna. La modernità ha visto una variazione di questo mito, dobbiamo costruire un paradiso in terra, un giardino quaggiù che ci garantisca l’immortalità. Per farlo va imitata la natura, almeno una concezione idealizzata, mitologia, pre/caduta, della natura. Le cose naturali fanno bene, sono sane, sono buone e giuste, mentre il prodotto dell’uomo è cattivo, corrotto, ecc. Ma nella sostanza nella natura sembra si nasconda il segreto dell’immortalità: questo c’è tutto il problema, vogliamo vivere in eterno e in modo naturale pure, perciò facciamo disastri”.

Abbiamo smesso di sentirci parte della Natura quando abbiamo iniziato a non vederla più come incarnazione di simboli?

“Questa è un’idea romantica. Anche il giovane Leopardi pensava che avessimo perso il rapporto con il passato, quel passato che spiegava i fenomeni naturali in forma mitica. Poi Giacomo nostro ha cambiato idea, e ha offerto descrizioni della Natura molto profonde, appunto, torniamo all’angoscia esistenziale di cui sopra, alle domanda alla luna senza risposta. Comunque, gran parte dei romantici di Natura non ci capivano niente, ma invocavano desideravano, proiettavano tutte le loro speranze artistiche, ma certo non erano naturalisti, mettevano tutto insieme, non facevano differenze. Per capire la Natura vanno studiate le leggi che la regolano, quelle darwiniane, e quelle della biologica”.

Un lavoro come quello di ispettore per il ministero dell’Agricoltura è stato un arricchimento, anche nel suo percorso letterario?

“Si certo, molto. Tutti i lavori sono oggetto di ispirazione artistica. C’è competenza, cultura, gesti ordinari e straordinari. Mica si può fare letteratura solo con la letteratura…”.

Dopo tanti libri, come vive questa entrata nella cinquina dei finalisti al Campiello?

“Con un senso di ritardo. Da una parte dico, finalmente, dall’altra penso al tempo perduto e alle occasioni sprecate: perché c’ho messo tanto?”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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