• 09/10/2023

Vivian Lamarque: “La mia poesia di coccio e d’acciaio”

Vivian Lamarque: “La mia poesia di coccio e d’acciaio”

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Era il 1911, quando Umberto Saba si chiedeva in uno scritto “Quello che resta da fare ai poeti”. Il testo, inviato alla “Voce” di Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, sarebbe rimasto a lungo inedito. In ogni caso, in quegli anni lo scrittore triestino non si sentiva affatto compreso, tanto che nel suo “Canzoniere” avrebbe scritto: “Io ero tra lor di un’altra specie”. Ma nonostante l’amarezza e il senso di frustrazione che lo avrebbe accompagnato fino alla morte, il 25 agosto del 1957, continuava a illudersi che ci fosse ancora una traiettoria precisa da seguire per chi voleva sentirsi poeta. Ed era la più lineare, limpida e facile da immaginare: “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”. Non quella, insomma, dei “magnifici versi per la più parte caduchi” di Gabriele D’Annunzio, ma l’altra, fatta di “versi mediocri e immortali” che in Alessandro Manzioni esplicava la “costante e rara cura di non dire una parola che non corrispondesse perfettamente alla sua visione”.

Non è a caso che il Premio dedicato da Trieste a Umberto Saba sia stato assegnato quest’anno a Vivian Lamarque (nella foto di Dino Ignani). Sì, perché la poeta nata a Tesero, e sempre vissuta a Milano, non ha mai nascosto di sentirsi “una poetina di coccio / normale, su un carrello di poeti / di ferro”. Tanto da averlo scritto a parole chiarissime sotto il titolo “Garzantina universale due” nella sua più recente raccolta di versi: “L’amore da vecchia” (Lo Specchio Mondadori, pagg. 153, euro 18).

Un’intuizione poetica che si incastona alla perfezione in un percorso di scrittura illuminato, da sempre, da una “poesia onesta”. Dalla capacità di Vivian Lamarque di dare un nome alle cose che sia limpido e corretto, di camminare nell’ombra della malinconia e del dolore senza mai perdere di vista la luce, di ascoltare la voce dei ricordi spesso taglienti e tenebrosi senza per questo arrendersi alla nostalgia della memoria. Ma continuando a restare connessa con un mondo interiore fatto di emozioni, visioni che si fanno parola, e della forza vitale dell’immaginazione.

Già nel titolo de “L’amore da vecchia”, Vivian Lamarque ha voluto ribadire il suo amore inestinguibile per le parole. Sfidando chi, da tempo, ha bandito dal proprio lessico quotidiano il concetto stesso di vecchiaia. Per lasciarsi cullare da un’illusoria, eterna, patetica imitazione della giovinezza. Lei no. Perché non ha paura di rivolgersi al tempo, di corteggiarlo con il sorriso, di scrivere con divertita pensosità: “È il tempo che passa / o siamo noi a passare? / Passa tu, tempo, dài! / Noi lasciaci / ancora un poco usare / il bel verbo / restare”.

Vivian Lamarque, che pochi giorni orsono ha vinto il Premio Strega Poesia, incarna la felicità stessa di fare della vita poesia. Il che non significa affatto che i suoi versi siano un tripudio continuo alla leggerezza. Anzi. Basterebbe ricordare le parole con cui dà voce al tormento di un’infanzia divisa tra due madri.: “A nove mesi la frattura / la sostituzione, il cambio di madre /Oggi ogni volto ogni affetto / le sembrano copie cerca l’originale / in ogni cassetto affannosamente”.

C’è in Vivian Lamarque, però, dall’esordio di “Teresino” alle “Poesie per un gatto”, da “L’amore mio è buonissimo” al “Signore degli spaventati”, da “Poesie dando del lei” a “Madre d’inverno”, una straordinaria capacità di attraversare il lato oscuro della vita senza mai smettere di aggrapparsi alla grazia, al battito di un cuore che non smette di sentirsi vivo. A quella straordinaria capacità epicurea di scrivere tante testimonianze letterarie sulla transitorietà indispensabile della felicità.

“La poetina di coccio, dentro di sé, ha anche un’anima di ferro – dice, accompagnando le parole con il suo bellissimo sorriso, Vivian Lamarque, che è stata tra gli ospiti dell’edizione 2023 di Pordenonelegge -. Altrimenti non sarei arrivata a ottant’anni attraversando diversi momenti difficili della mi vita. Nel ‘Signore degli Spaventati’ c’è una poesia in cui dico: ‘Era come un roseo fiorellino, ma d’acciaio /. Come d’acciaio? / D’acciaio temperato. Quello che, ardente, viene gettato nell’acqua perché acquisti durezza. / Aveva davvero acquistato durezza quel fiorellino quando l’avevano gettato? /Sì’. Ecco, in queste parole c’ tanto del mio mondo”.

E dire che il dolore ha attraversato la sua vita fin dai primissimi anni.

“Mi sono sentita proprio gettata. Non devo raccontare di nuovo la storia della mia infanzia, delle due mamme, dell’improvviso trasferimento da Tesero a Milano quando avevo quattro anni. Per questo la mia poesia è delicata, ma al temoo stesso forte. È come me, di coccio e d’acciaio”.

Quando ha iniziato a sentirsi abitata dalle parole, dalla poesia?

“Ho sempre scritto. Poi mettevo lì, accumulavo poesie senza pensarci troppo. Senza chiedermi che cosa ne avrei fatto. Poi Lucio Lamarque, fratello di mio marito, che lavorava alla casa editrice Garzanti, un giorno ha voluto far leggere qualcosa a Giovanni Raboni. Senza dire niente a me. Al poeta i miei versi sono piaciuti e ha deciso di pubblicarli su ‘Paragone’ e ‘Nuovi Argomenti’. Forse è stato quello il momento in cui, incoraggiata dal riconoscimento degli altri, mi sono resa conto che aveva qualche valore quello che stavo scrivendo. Poi la rccolta ‘Teresino’ ha vinto il Viareggio Opera Prima nel 1981. Ma da sola, credo, non ce l’avrei fatta”.

Forse non c’è stato un vero inizio?

“Ho iniziato a scrivere poesie a dieci anni. Questo sgorgare delle parole è arrivato con irruenza. quando ho avuto la consapevolezza che nella mia vita c’erano due madri. Conservo ancora il quaderno con le poesie di allora. Alcune bruttine, altriein cui mi riconosco ancora. Lo stesso stile, la stessa sensibilità. In un tema per scuola scritto in terza elementare, ad esempio, dovevo descrivere una persona cara. Ho scelto mio padre, scomparso quando avevo quattro anni. Mi sono messa a raccontarlo, con tutti i suoi valori, le cose che ricordavo. Poi chiudevo bruscamente, annotando: ci sono anche altri amici del mio babbo morto, ma pochissimi. Era come dire: mi manca, l’ho perso, perché questo è dovuto toccare soltanto a me? Ecco, lì c’era già la cifra della mia poesia”.

Con “L’amore da vecchia” sfida uno dei principali tabù del nostro tempo: la vecchiaia?

“Mi piace tantissimo la parola vecchia. Ha un suono secco, come le foglie secche. Con quella ‘ch’ così forte. Ma, all’inizio, molte amiche esitavano sulla scelta di questo titolo. Lo trovavano troppo forte. Ma io ho sempre detto: non posso cambiarlo con ‘L’amore da anziana.’ E, poi, diciamo pure che bella vecchia quercia, lo stesso per l’ulivo e per altri alberi. Perché, allora, proprio noi umani dobbiamo avere paura di questa parola? Il titolo si è presentato così, ancora prima che io iniziassi a scrivere i versi. Era quello giusto”.

Anche lei, come Umberto Saba, ha fatto un percorso di analisi?

“Umberto Saba ha potuto fare pochissima analisi e non ne ha tratto giovamento. A me ha cambiato la vita. Intensamento ho seguito questo percorso per vent’anni, sarebbe bastato forse anche meno. Il poeta triestino, purtroppo, è riuscito a seguire Edoardo Weiss soltanto per pochi mesi. La sua vecchiaia, poi, è stata molto triste e piena di angoscia”.

Non le bastavano le parole, la sua poesia?

“Le parole possono salvare, ma anche far ammalare. A me è successo così. Stavo vivendo di poesie, di carta, un marito, una figlia. E non riuscivo più a vedere il mondo attorno a me. Una notte ho sognato che mi seguiva un orso. Io, spaventata, cercavo di scappare. ma lui non mollava. Allora, per cercare di calmarlo, ho preso dalla borsa uin biberon. Dentro, era pieno di carta stampata. Un’immagine che dice molto sul momento che stavo attraversando”.

Spesso dedica versi a poeti famosi. È vero amore?

“Mi piacciono poeti come Giorgio Caproni, eppure mi attrae anche chi ha scritto versi molto più nutriti di oscurità come Sylvia Plath. Mica è sempre facile stare da una parte o dall’altra. Lo dico anche in alcuni versi di ‘Madre d’inverno’ dedicati a Wislawa Szymborska: ‘Perferisco Szymborska, preferisco i giorni di pioggia / ai giorni di sole e i giorni di sole a quelli di pioggia /preferisco le guerre senza le lettere g, u, e, r, r, e /oppure le guerre senza la gi e la u che resta solo la erre di rosa / preferisco rosa rosae, preferisco le rose canine / preferisco la canzone Reginella alle regine / preferisco pratoline, preferisco Wislawa che si legge Visuava / preferisco Szymborska (“sei bella dico alla vita”) / preferisco matita, segnare i suoi versi, i suoi capoversi /preferisco i cani ai gatti e i gatti ai cani /
(d’inverno i gatti e d’estate i cani) / preferisco i libri con la copertina morbida / preferisco le poesie che si capiscono / e quelle che non si capiscono i misteri”.

Gatti e cani, li ama entrambi (anche se ha dedicato una raccolta al suo micio Ignazio)?

“Davvero, forse, amo di più i cani. Il gatto è un’altra cosa. Però a Ignazio, un persiano che si dava molte arie, molto compreso nel suo ruolo di gatto, ho dedicato un’intera raccolta di poesie. Nell’inverno tra il 2007 e il 2008, il regista Silvio Soldini ha girato un film su di me: “Quattro giorni con Vivian”. In un primo momento aveva tagliato le scene in cui si vedeva Ignazio. Poi, quando ha saputo che era morto, mi ha fatto una sorpresa e le ha rimesse al suo posto”.

<Alessandro Mezzena Lona

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