• 28/04/2020

Jenny Offill, frammenti di “Tempo variabile” prima dell’apocalisse

Jenny Offill, frammenti di “Tempo variabile” prima dell’apocalisse

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Ci sono molti modi per destrutturare la forma del romanzo. Ci hanno provato le avanguardie, con risultati a volte eccitanti, a volte solo ammirevoli, ma pressoché illeggibili. Non sono mancati i tentativi in solitaria. Uno solo fra tanti, più recenti: “Scatola nera” di Jennifer Egan, Premio Pulitzer per “Il tempo è un bastardo”, che nel 2012 ha provato a raccontare un’originale spy story in “Scatola nera” (tradotto da Matteo Colombo per minimum fax) organizzando il testo in una sequenza di micro racconti cadenzati sulla lunghezza che hanno i messaggi spediti via Twitter. In formato originale. Ovvero, non più di 140 caratteri.

E, poi, c’è chi non fa grandi proclami. Non compila manifesti sulla morte del romanzo. Non rivendica il fatto di avere inventato uno stile del tutto nuovo e originale. Semplicemente, lavora sul testo con grande passione e applicazione. Fino a trasformarlo in una sequenza perfetta di flash. Di quadri in apparenza slegati tra loro. Di sequenze del tutto autonome, eppure intensamente connesse. Di fotogrammi che, presi da soli, possono già raccontare un microcosmo. Ma che poi, messi tutti assieme in fila, finiscono per rivelare il senso del progetto.

Una scrittrice che lavora con questa tecnica è Jenny Offill. Non da sempre, visto che il suo romanzo d’esordio, “Le cose che restano”, conservava ancora una struttura tutto sommato classica. Che già, però, si frantumava in “Sembrava una felicità”. Ma adesso, possiamo dire che scrittrice americana ha trovato la sua strada maestra. Quella che cercava da tempo. Dove la trama, come ha detto lei stessa, è molto meno importante del “momentum”. Basta leggere il suo libro più recente, tradotto con grande cura da Gioia Guerzoni per NN Editore: “Tempo variabile” (pagg. 170, euro 16).

Romanzo che fa ritornare in mente le parole dette da Jenny Offill in qualche intervista: “La trama lineare non è l’unica a portare avanti una storia. È un modo antiquato di pensare alla narrativa. In ogni relazione ci sono momenti che fanno levitare le cose: io credo che siano determinati più dalle emozioni che da fatti esterni”.

Basta prendere l’incipit di “Tempo variabile” per capire come lavori Jenny Offill sulla forma romanzo. E quanto sia vero che, per lei, contino più le emozioni, gli stati d’animo. “Al mattino – scrive l’autrice che ha vissuto in Massachusetts, California, Indiana e North Carolina – entra la donna che è quasi arrivata all’illuminazione. È convinta di essere nella penultima fase, che si può descrivere solo con una parola giapponese. Significa secchio di pittura nera”.

Ecco, questo è un avviso per i lettori che non amano i romanzi liberi di tollerare l’incerto. Quelli che imboccano una direzione, poi deviano, per ritornare sulla stessa strada soltanto dopo averne percorse tante altre. Jenny Offill scrive per insegnare a tollerare l’incerto. Inventa storie nella convinzione che la vita non abbia mai la linearità di una narrazione. Ma proceda per contraddizioni, intervalli, momenti di sfrenata gioiosità e lunghe fasi di abulica gestione della quotidianità.

Se in “Le cose che restano” era attorno alla piccola Grace che ruotava il perno della storia, descrivendo una famiglia divertente e piena di divetti da cui la ragazzina doveva staccarsi per trovare se stessa, e “Sembrava una felicità” era il ritratto affascinante di una donna in cui si riflettevano tutti i problemi del vivere in coppia, “Tempo variabile” gira interamente attorno a Lizzie. Una moglie, una madre, una figlia, una sorella, che si carica di troppe responsabilità. Che prende sulle proprie spalle gli attimi di complicità e i momenti vuoti del rapporto con il marito Ben. Che si illude di poter essere presente, con caotica disponibilità, nelle vite del figlio, del fratello tormentato da un problema di dipendenza, di una madre dall’ingombrante personalità mistica.

In tutti i libri di Jenny Offill ritorna, con insistenza, una sincera preoccupazione per il destino della Terra. Soffocata dai gas di scarico, spogliata da una folle deforestazione, assediata dalle tonnellate di plastica buttate nei mari. Ma quando la scrittrice porta i suoi personaggi a confrontarsi con il problema ecologico, e lo fa anche in “Tempo variabile”, non scivola mai nella retorica. Non si limita a inserire nel testo quattro facili slogan, molto alla moda. Ma costruisce una riflessione che tiene conto di tutte le contraddizioni del nostro mondo. Di un progresso ormai totalmente schiavo del profitto.

Del resto, non è un segreto che Jenny Offill abbia sognato, da ragazza, di vestire i panni della scienziata. “Volevo diventare come Jenny Goodall, la studiosa degli scimpanzé. Ma ero davvero scarsa in matematica. Non ce l’avrei mai fatta”. Resta il fatto che la struttura dei suoi romanzi assomiglia al tavolo dove un entomologo intento a studiare gli insetti. Disordinato,  all’apparenza, niente affatto professionale, dominato da uno spirito di anarchia. Eppure perfettamente in grado di osservare e raccontare, attraverso il microscopio della scrittura, il nostro vivere in un mondo sull’orlo dell’apocalisse.

Esattamente come “Tempo variabile”. Frammentario, liberissimo ritratto di un vivere con gli occhi puntati sull’abisso.

<Alessandro Mezzena Lona<

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