• 16/06/2020

Daniele Mencarelli: “Ascolto le parole, lì sta il senso della vita”

Daniele Mencarelli: “Ascolto le parole, lì sta il senso della vita”

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Amare la “poesia onesta”, come la chiamava Umberto Saba, non è di moda. E nemmeno il voler rifuggire dalla corsa al successo editoriale. Eppure, senza mai abbandonare l’idea di una letteratura che racconti la vita con una lingua limpida, esatta e ispirata, Daniele Mencarelli si sta conquistando un posto di prima fila nel Gotha italiano. Non solo come autore di versi, con una decina di raccolte ormai alle spalle, ma anche come narratore. Prova ne sia che il suo romanzo d’esordio, “La casa degli sguardi”, ha conquistato tre premi per l’opera prima come il Volponi, il Severino Cesari e il John Fante. Il secondo, “Tutto chiede salvezza”, ha sbaragliato una concorrenza agguerrita vincendo pochi giorni orsono lo Strega Giovani. E assicurandosi un posto nella finale a sei.

Ma non è soltanto nei successi, e nel riconoscimento della critica, che si specchia l’ottimo lavoro letterario di Daniele Mencarelli. Piuttosto, chi ancora non conosce lo scrittore nato a Roma, che vive ad Ariccia e collabora con quotidiani e riviste, deve prendersi il tempo di apprezzare il gran lavoro di costruzione linguistica, l’originale ritmo del narrare che contraddistingue sia “La casa degli sguardi”, ma soprattutto il più recente “Tutto chiede salvezza”, pubblicato da Mondadori (pagg. 197, euro 19).

Sì, perché Daniele Mencarelli procede per sottrazione. Non riempie la pagina di parole, non gonfia la narrazione fino a portarla sul punto di esplodere. Anzi, di tanto in tanto, si ferma. Trattiene la voce. Lascia che lo spazio bianco ingigantisca tra le righe e faccia posto al silenzio. Perché significa che lì, proprio lì, il lettore deve rallentare. Deve predisporsi ad ascoltare con maggiore attenzione. Per mettere bene a fuoco quel passaggio della storia. Quel particolare intermezzo nel fluire del racconto.

Questo non significa, si badi bene, che le storie di Daniele Mencarelli siamo fatte d’aria, raggi di luce a sorrisi rassicuranti. Anzi, è esattamente il contrario. “Tutto chiede salvezza” mette in scena la storia dura, scomoda, perturbante di un ragazzo di vent’anni. Un Daniele Mencarelli che esce dal passato dello scrittore, anche se poi si trasfigura in un personaggio da romanzo. Nel giugno del 1994, l’estate dei mondiali di calcio negli Stati Uniti, un Tso, trattamento sanitario obbligatorio, lo porta a essere ricoverato in un reparto psichiatrico. iPerché in un’accesso d’ira ha rischiato di ammazzare suo padre. Per il Tribunale, quel ragazzo che si fa troppe domande sulla vita, e non riesce a trovare un suo centro di gravità permanente anche a causa delle pillole e delle droghe, dev’essere analizzato bene da chi si occupa del disagio psichico. È necessario, insomma, che sia disinnescato prima di ritornare in famiglia e esplodere un’altra volta.

Cominciano, così, sette interminabili giornate. In cui Daniele prova ad aggrapparsi alla poesia, ai ricordi, all’amore sconfinato per sua madre, alla voglia di ritornare alla vita, per non impazzire davvero. Perché lui deve stare lì, dentro uno stanzone dove la temperatura raggiunge livelli inaccettabili. Dove la puzza toglie il fiato e il cibo è immangiabile. Dove i medici sembrano soltanto abili giocatori di una caccia al tesoro intenti a trovare la pillola giusta per riportare Mencarelli alla tranquillità. Dove gli infermieri sono poveri infelici che spesso sfogano sui pazienti la propria insoddisfazione.

Sarà nell’eterogenea, folcloristica e dolente umanità del reparto psichiatrico che Daniele troverà un modo per rivalutare la propria vita. Ascoltando le imprecazioni di un uomo che sa ripetere solo “Maria ho perso l’anima! Aiutami Madonnina mia!”. Apprezzando la dedizione di un padre che ogni giorno viene a imboccare il foglio catatonico. Scoprendo il rapporto castrante con la madre di un tenero, patetico transessuale che si sente donna, anche se lei pensa che sia soltanto un suo vizio. Affidando tutta la propria fiducia a un marito, che scoprirà essere stato internato dopo aver cercato di ammazzare la moglie e la figlia.

“Felice di essere finalista al Premio Strega? Felicissimo – dice Daniele Mencarelli -. Ma la gara più difficile, se vogliamo usare un termine sportivo, era quella dello Strega Giovani. Perché lì mi sembrava di essere battuto in partenza. C’erano almeno un paio di romanzi che perfetti per conquistare un pubblico di ragazzi. Invece, la giuria è andata a scegliere il mio libro. Quello più duro, che parla di disagio, di problemi psichici”.

Un bel segnale, visto che i ragazzi sembrano pronti per fare i conti con la vita…

“Io giro molto per le scuole. Sono spesso a contatto con i ragazzi. E dico con entusiasmo che queste nuove generazioni sono le prime che si stanno lasciando alle spalle tutte le scorie del ‘900. Tutti i residui ideologici, i tabù. Loro vogliono discutere e approfondire tutto, partendo dagli aspetti seri della vita”.

Due romanzi, un solo protagonista. Ma “Tutto chiede salvezza” non è il seguito della “Casa degli sguardi”.

“No, all’inizio il progetto era diverso. Pensavo di scrivere ‘La casa degli sguardi’ e poi cambiare registro. Dedicarmi più a una storia di fiction. Poi, visto che il primo romanzo era stato accolto bene dalla critica e dai lettori, ho ripensato ai miei anni turbolenti della gioventù. E lì dentro, lo sapevo bene, c’erano altre due storie da raccontare. Però dovevo ritornare a ritroso nel tempo. In pratica, ho iniziato con un libro ambientato nel 1999, poi ‘Tutto chiede salvezza’ è ripartito al 1994″.

Ha già in mente una parte finale della trilogia?

“Dovrei finire ritornando al 1991, quando avevo 17 anni. Sarà un romanzo diverso rispetto agli altri. Il primo si svolge sostanzialmente all’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma e nella casa del protagonista. Il secondo, invece, ha come centro di gravità un unico luogo: un reparto di psichiatria. Il terzo avrà confini molto vasti. Sarà un road book, un racconto di viaggio”.

Li definirebbe romanzi autobiografici?

“La materia che uno scrittore trasforma in storia, in romanzo, non può che tradire la vita reale. A partire dal fatto che la lingua stessa che usi, spesso, ti obbliga a ideare piccoli, o grandi, cambiamenti rispetto alla realtà. Perché è necessario restituire al meglio ,a chi legge, la vicenda che vuoi raccontare. E poi, sono convinto che sia sbagliato mettere un aggettivo accanto al termine letteratura, poesia. Se nasce da un’astrazione, da un dato biografico, o da qualunque altro tipo di suggestione, conta soltanto il valore del testo. Se penso a Dino Campana mi verrebbe voglia di fargli una domanda”.

Quale?

“Vorrei chiedergli, se potessi incontrarlo scavalcando il tempo che ci separa, qualcosa proposito del suo viaggio a Buenos Aires. Ancora oggi, biografi e lettori si chiedono se l’abbia fatto veramente o no. Però, questo dubbio nulla toglie al valore immenso del  suo testo”.

Daniele Mencarelli di “Tutto chiede salvezza” è una sorta di suo avatar?

“Gli incontri con le persone che racconto nel libro non sono assolutamente inventati. Per rispetto nei loro confronti. I pazienti sono proprio la versione di carta di chi ha condiviso con me la settimana di Tso nel reparto psichiatrico. Lo stesso vale per i medici. L’episodio del dottor Mancino, che si addormenta mentre Daniele racconta il suo passato, è andato davvero così. Gli stessi dialoghi con loro sono tutti veri. Ovviamente non si riveriscono solo ai sette giorni di degenza obbligata, ma a tutti i vent’anni in cui ho frequentato gli psichiatri. E questa è la forza della scrittura. Alla fine tutto torna, che sia astrazione, invenzione, autobiografia. Conta soprattutto che funzioni la lingua”.

La poesia, primo amore, è stata una grande scuola?

“Il poeta cerca sempre il dettaglio, il particolare, che rivela, poi, l’immagine nel suo insieme. Non credo che una descrizione, per quanto millimetrica, riesca a descrivere con la stessa forza una situazione evocata con piccole suggestioni. Con aspetti che potrebbero sembrare marginali. La poesia regala uno sguardo netto, preciso sulla vita. Ti insegna l’attenzione. Il saper cogliere il cuore delle cose. Dove si nasconde la rivelazione. Ecco, ho cercato di portare questa grande lezione anche nei miei testi narrativi”.

Nei suoi romanzi spesso sospende il racconto, per attirare l’attenzione sull’importanza di alcune parole…

“Sì, sono certi a capo, certi spazi bianchi, che servono da avviso ai lettori. È come se io volessi dirgli: fermati, questo è un momento più lirico. La narrazione, a quel punto, lascia entrare nella pagina il silenzio”.

L’uso del dialetto: una scommessa?

“Sì, una scommessa che mi ha tolto qualche ora di sonno. Il dialetto, per me, è fondamentale. Lo parlo sempre, credo si capisca molto bene dalla dizione quanto forte sia il legame che ho con la mia terra. Però non avevo mai pensato di mescolare all’italiano un parlata regionale. Invece, poi, quando ho iniziato a scrivere i dialoghi, mi sono reso conto che suonavano falsi”.

Li aveva scritto in italiano?

“Sì, ma se avessi mantenuto quel tono alto, il romanzo sarebbe crollato. E adesso non staremmo qui a discutere né di premi e nemmeno del valore della storia. È stato fondamentale riportare i dialoghi tra i personaggi nel dialetto che sono abituati a parlare”.

Il tema del disagio, ancora oggi, è oggetto di continuo esorcismo?

“È strano quanto resista ancora una sorta di divieto di parlare del disagio mentale, dei problemi psichici. Proprio nel momento in cui assistiamo a un’esplosione mondiale del fenomeno della depressione, di altri disturbi legati anche alla difficoltà di gestire la realtà. Credo sia profondamente sbagliato. Perché rimuovendo certi argomenti, come la morte, la sofferenza, un’idea di vita che non sia soltanto vuota retorica, si rischia di moltiplicare il disagio. Non siamo macchine, abbiamo bisogno di interrogarci sul senso della nostra stessa esistenza”.

Soltanto la scienza trova il modo di parlare di disagio?

“Certo, fino a non molto tempo fa erano tante le lingue per interrogarci sulla vita. Penso alla filosofia, alla religione. Oggi rimane soltanto la scienza a cercare di dare delle risposte. Però non possiamo ridurre tutto alla sfera della malattia. Perché un ragazzo di vent’anni che si pone domande sul senso delle cose non fa altro che collegarsi con il resto dell’umanità, con chi è venuta prima di lui. E dimostra vitalità, curiosità, non certo malessere. Per questo sono convinto che la letteratura, la poesia possano trovare le parole giuste per raccontare la ricerca di un senso”.

Alcol e droghe sono il comodo rifugio per disinnescare la rabbia?

“Il mondo, spesso, sembra voler silenziare la rabbia, la frustrazione di tanti giovani. Soprattutto di chi non si accontenta di vivere senza mai alzare gli occhi da terra. Senza porsi delle domande. E questo può essere molti pericoloso. Perché si rischia che le stesse persone sfoghino la loro insoddisfazione al bar, attaccandosi alla bottiglia, o nel mondo delle droghe. Per trovare delle forme di ottundimento che consentano loro di allontanarsi da se stessi. E dalle domande senza risposta”.

L’amore per i libri, per la scrittura, quando è iniziato?

“Un passaggio fondamentale lo racconto in ‘Tutto chiede salvezza’. In terza media, una mia prof scoprì una compagna di classe a leggere di nascosto la biografia del rocker John Bon Jovi. E, invece di arrabbiarsi, le propose di provare anche con ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi. Ecco, lì è nata la mia infatuazione per i libri. Avevo 14 anni. Cominciai a capire la differenza tra un uso della lingua, delle parole, finalizzato a vendere qualche copia in più, e il desiderio forte che prova uno scrittore di dare voce alla propria umanità”.

Dalla curiosità è nata la voglia di scrivere?

“Da allora, l’indifferenza si è trasformata in curiosità. Perché mi interessava vedere se davvero dentro le parole ci fosse la possibilità di raccontare me, i miei dubbi, il mio mondo. DSono iniziate così le prime letture anarchiche, selvagge. In autostop raggiungevo l’unico paese vicino che avesse una libreria. E allora c’erano i Miti Mondadori, una collana che raccoglieva il meglio della letteratura. Con diecimila lire ne acquistavo due per volta. Misono messo a leggere Dario Bellezza e Mario Luzi, ma anche Umberto Saba e Charles Baudelaire. E moltissimi narratori”.

Non è fuori tempo affermare “io amo la poesia onesta”?

“No, ho imparato a scrivere soltanto quello che mia madre può capire. Perché tanti con le parole si vestono, mentre la poesia, la letteratura devono essere nude. Sincere. Devono contenere tutta la nostra umanità. Jorge Luis Borges diceva che la complessità va sciolta prima di iniziare a scrivere. Ecco, l’arte deve essere utile a chi si avvicina all’artista. Primo Levi parlava di un dovere, per lo scrittore, di risultare leggibile e confortevole agli occhi del lettore. Oggi temo che si prenderebbe tante pernacchie”.

<Alessandro Mezzena Lona<

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