• 30/11/2020

Dino Buzzati, la poesia di un cronista che non “transitava”

Dino Buzzati, la poesia di un cronista che non “transitava”

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Lo chiamavano Cretinetti, in redazione. Quando Dino Buzzati era entrato al “Corriere della Sera” in via Solferino, la sua educazione signorile, i prolungati silenzi, il non voler mai sgomitare per fare carriera, lo scrupolo e l’eleganza, venivano interpretati come il modo d’essere di un uomo fuori dal tempo. E, forse, anche fuori contesto, visto che la “quotidiana fanteria” dei giornali, come la chiamava Giulio Nascimbeni, assomigliava più ai frequentatori delle taverne di un porto che a quelli delle esclusive stanze dove si insegna la buona educazione. E lui? Si rendeva conto di essere una sorta di intruso, in quell’ambiente. Tanto da annotare sul diario, il 10 luglio del 1928: “Oggi sono entrato al Corriere. Quando ne uscirò? – presto, te lo dico io, cacciato come un cane!”. Pochi mesi dopo, temendo di non venire assunto definitivamente, scriveva: “Ancora un mese di prova. Forza, o Dino. Intanto, o Dio, ti prego, dammi qualche idea per un capocronaca”.

E dire che Dino Buzzati non era affatto un tiratardi. Anzi, da buon “doverista”, come lui stesso si definiva, non mancava mai di svolgere a puntino tutti i compiti che gli venivano assegnati. Sia quando, da praticante, lo destinarono in un primo periodo all’archivio del “Corriere”, sia quando era comandato a trascorreva lunghe ore in redazione ad aspettare che i cronisti, cacciatori di notizie in giro per la città, telefonassero al giornale. E raccontassero a quelli come lui, i veri estensori degli articoli, le storie raccolte per le strade.

Ma proprio per quello, per la capacità di sgomitare e mettere in mostra i propri talenti, i colleghi, con affetto, lo chiamavano Cretinetti. Perché non capivano come un giornalista così metodico e scrupoloso come Dino Buzzati potesse mancare del tutto di ambizione. Del resto, nel Giovanni Drogo del “Deserto dei Tartari”, in quel giovane ufficiale sempre pronto a eseguire gli ordini, ad aspettare con pazienza il momento di gloria fino ad annullarsi nell’ombra della morte, lo scrittore avrebbe finito per ritrarre anche un po’ se stesso.

Dovette venirgli in soccorso la letteratura perché i capi del “Corrierone” si accorgessero di quanto talento albergasse in quell’uomo all’apparenza grigio, dalla voce pacata e gentile. Così, dopo la comparsa dei suoi primi racconti, lunghi ,”Bàrnabo delle montagne” e “Il segreto del Bosco Vecchio”, ma soprattutto del “Deserto dei Tartari, pubblicato nel giugno del 1940, ma lavorato nelle lunghe notti trascorse in redazione tra il 1922 e il 1938, finalmente Dino Buzzati entrò a far parte di quella squadra di giornalisti che non si accontentava di scrivere la cronaca, soprattutto nera, “transitando”. Ovvero usando luoghi comuni, frasi stereotipate, dettagli messi lì in fil senza un senso. E raccolti sempre di corsa, spesso senza prendersi il tempo di controllarli.

E non bisogna dimenticare che, a inseguire i fatti di nera più clamorosi, c’erano allora nomi che avrebberop scritto la storia del giornalismo italiano di quegli anni. Da Orio Vergani a Camilla Cederna, dal poeta Alfonso Gatto, al Tommaso Besozzi che fiuterà la verità sul caso del bandito Giuliano.

Ma Dino Buzzati, anche da cronista spedito sul campo spesso in gran fretta, non riusciva mai a separare il suo amore per il giornalismo da quello per la letteratura. Lo confesserà a cuore aperto allo studioso francese Yves Panafieu in quel meraviglioso libro intervista che è “Dino Buzzati un autoritratto”, pubblicato pochi mesi dopo la morte dello scrittore dei “Sessanta racconti”: il primo gennaio del 1973.

Come ha scritto Carlo Bo,  Dino Buzzati “era un cronista di assoluta fedeltà, ma alla fine andava oltre e scioglieva tutto con il miracolo della poesia”. Per questo, leggere ancora oggi i suoi articoli è interessante, sorprendente, per niente scontato. Perché quei vecchi pezzi che raccontano un’Italia fatta di delitti passionali, tragedie epocali come la strage di Albenga o la tragedia di Superga, dove morirono i calciatori del Grande Torino, rapimenti e suicidi, scandali e superstizioni, non subiscono l’ingiuria del tempo che passa. Non invecchiano. Anzi, conservano in sé tutta la forza di reportage scritti non soltanto scandagliando le pieghe più nascoste delle storie. Ma lanciandosi in congetture, supposizioni, teorie. Lasciandosi trasportare, insomma, dal desiderio di capire di più. Per squadernare davanti agli occhi dei lettori i luoghi e i pensieri, le stanze ancora macchiate di sangue e la livida luce al neon che le illumina, poche ore dopo che “scuri fantasmi” le hanno attraversate. Portandosi appresso “l’angoscia segreta del mondo”.

Quegli articoli, entrati ormai nella storia del giornalismo e della letteratura, ritornano adesso in uno splendido volume pubblicato da Mondadori. Si intitola “La nera” (pagg. 596, euro 30). Riprende la vecchia edizione pubblicata nel 2002 in due volumi, raccolti in cofanetto negli Oscar Mondadori. Ripropone anche il puntuale e documentatissimo saggio introduttivo di Lorenzo Viganò, che da tempo cura con grande passione le nuove edizioni delle opere dello scrittore nato a San Pellegrino di Belluno nel 1906 e morto a Milano nel 1972.

Ma, attenzione:  non si tratta di una ristampa nuda e cruda, proposta in altro formato. No, “La nera” di Dino Buzzati, questa volta include, nella già ricca scelta di testi nuovi articoli come “Sono entrato nella casa della strage”, nella sequenza che racconta i delitti della friulana Rina Fort, ma anche quelli sul rapimento Peugeot, sul delitto dell’ingegner Dalla Verde, sul giallo del Bitter. E poi, soprattutto, accompagna l’antologia di scritti buzzatiani, suddivisa sempre nelle due sezioni “Crimini e misteri” e “Incubi”, con numerosi disegni dell’autore, riproduzioni di pagine di quotidiani e riviste, foto dei protagonisti e di quella che oggi viene definita la scena del crimine.

In fondo, quello del cronista “di nera” era un mestiere che si adattava alla perfezione a Dino Buzzati. Perché lui, ricorda Lorenzo Viganò, amava “i delitti e i misteri, ne era affascinato, e perciò sapeva coglierne gli aspetti più coinvolgenti, gli stessi che facevano (e faranno sempre) presa sulle persone”. Non a caso, lo scrittore e giornalista Oreste Del Buono era convinto che “Dino riuscisse a provare in prima persona i sentimenti reali diffusi tra la gente”. E poi, guardando negli occhi la realtà, ascoltando i sussurri del mistero e dei segreti indicibili che ogni essere umano nasconde nel profondo di se stesso, lo scrittore di “Un amore”, “Poema a fumetti”, “I miracoli di Val Morel”, trovava il coraggio di dialogare con la grande figura rimossa dal tempo presente: la Morte.

Con il suo umorismo alla Buster Keaton, come ricordava Indro Montanelli, e quella distaccata classe che lo rendeva un “borghese stregato” tra uomini troppo appiattiti sulla normalità, Dino Buzzati ha lasciato pagine memorabili sul caso Kappler e la misteriosa morte di Marilina (come la chiamava lui) Monroe, sull’assassinio di John Kennedy e le tragiche bravate della banda Cavallero. Senza mai dimenticarsi di essere uno scrittore dentro i panni del giornalista.

Per capire quanto fosse nitido, eppure personale e sempre aperto ai suggerimenti della fantasia, della poesia, lo stile di Dino Buzzati “nerista” basterebbe andare a rileggere le parole strazianti e umanissime scritte a commento della notizia che Ilse Koch, la “belva” che si lavava con il sapone fatto dei corpi degli internati di Buchenwald, aspettasse un bambino.

“Potrebbe darsi – scriveva Dino Buzzati – che l’amore materno in lei non riesce a oltrepassare l’animalesca corteccia che ricopre le nostre anime. Ma potrebbe anche darsi che le mille maledizioni venute dai cimiteri posino sopra il piccolo Hans, o Max o Otto, rendendolo all’improvviso straordinariamente pesante; un bambino di piombo che le braccia di Ilse, per quanto atletiche, non sarebbero più capaci di tenere”.

E a chi, ancora oggi, stenta a riconoscere che Dino Buzzati sia stato uno degli scrittori più innovativi, e aperti alla contaminazione della letteratura con i linguaggi della pittura e del fumetto, è dedicato l’invito caloroso a rileggere le pagine sul “Caso Olivo” Uno dei “Misteri di Milano” raccontato, nell’aprile del 1966, per le pagine del “Corriere d’Informazione” con la stessa visionaria ispirazione narrativa che, tre anni più tardi, avrebbe dato forma a un vero gioiello editoriale come “Poema a fumetti”. Anticipatore dei grandi romanzi disegnati del ‘900. Apprezzato e rivalutato dalla critica, purtroppo, con grande ritardo.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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