“La letteratura ti dà la possibilità di vivere vite che non sono la tua e in quelle condizioni non potevo fare altrimenti: il mio destino era vivere attraverso la letteratura”. Le “condizioni” a cui alludeva Ismail Kadare in un’intervista rilasciata a Parigi, da uomo libero, erano quelle imposte dal regime comunista di Enver Hoxha in Albania. Un mondo claustrofobico, governato da un Verbo ideologico indiscutibile, soffocato dai dettami del Partito Unico. Un incubo capace di far impallidire i più inquietanti romanzi del ‘900 che hanno provato a immaginare un presente-futuro imprigionato nella strettissima ragnatela di qualche potere assoluto: “1984” di George Orwell, “Noi” di Evgenij Zamjatin, “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley.
Ismail Kadare non ha mai sentito il bisogno bisogno di immergersi tra le pagine di quelle immaginarie distopie. Di trarre ispirazione da loro. Perché lo scrittore di Argirocastro ha vissuto sulla propria pelle la cupa realizzazione di un progetto politico, come quello di Hoxha, che dal 1944 in poi ha continuato a sentirsi minacciato da un nemico oscuro. Pronto ad annientarlo. Un avversario che, in un primo tempo, sembrava poter arrivare dall’odiata Jugoslavia di Tito o dalla Grecia fascista dei Colonnelli. Più tardi dalle forze capitaliste dell’Occidente e dai comunisti sovietici del Patto di Varsavia. Non a caso, il Grande Fratello albanese progettò di far costruire 220mila bunker sparsi in tutto il Paese per esseri usati come posti di guardia, ricoveri di armi e punto di resistenza alle truppe dell’invasore. Ma riuscì a realizzarne soltanto 170mila.
“Il mio destino era vivere attraverso la letteratura”. E scrivendo, immaginando storie, sfondando gli angusti confini dell’Albania, Ismail Kadare non poteva evitare di raccontare quanto un uomo libero si sentisse in catene anche quando prendeva carta e penna e iniziava un nuovo romanzo. Quasi tutti i suoi libri, infatti, da “Il generale dell’armata morta” a “I tamburi della pioggia”, da “La città di pietra” a “Il crepuscolo degli dei della steppa”, da “Aprile spezzato” a “Chi ha riportato Doruntina?”, non smettevano di girare attorno ai temi della libertà, della feroce soppressione di un pensiero eretico, della costruzione di un Potere assoluto che non concedeva nemmeno la libertà minima di dissentire.
In questo suo peregrinare in un mondo di fantasia, che affondava le radici in una realtà deformata e resa allegorica, ma pur sempre assai simile a quella dell’Albania comunista, Ismail Kadare ha dato forma nel 1981 a uno dei suoi romanzi più belli, inquietanti e difficili da chiudere dentro una sbrigativa definizione di “letteratura del dissenso”. Sì, perché “Il Palazzo dei Sogni” non è soltanto la metafora di un impero millenario che sta precipitando verso il baratro. Non è soltanto il racconto di un Potere folle che pretrende di controllare i propri sudditi a tal punto da costringerli a raccontare i propri sogni, notte dopo notte. Ma è anche il più oscuro e drammatico sguardo sul destino dell’uomo quando viene ridotto a meccanismo minimo di un monumentale ingranaggio sfuggito al controllo stesso del proprio creatore.
Se volessimo creare un piccolo albero genealogico del “Palazzo dei Sogni” dovremmo citare di sicuro “Il castello” di Franz Kafka, ma anche “L’altra parte” di Alfred Kubin. Senza dimenticare il più geniale, visionario ed estremo affresco di un mondo concentrazionario, dove il controllo dei corpi e delle anime non sfugge nemmeno per un istante alla mastodontica macchina delle repressione: cioè l’Inferno di Dante.
Eppure “Il Palazzo dei Sogni” di Ismail Kadare è, al tempo stesso, un romanzo che non paga pegno a nessun altro capolavoro della letteratura mondiale. Proprio perché si smarca dall’idea di essere una pura allegoria del Potere. E costruisce, nella propria ossessiva intelaiatura narrativa, il concetto che sia dentro l’uomo stesso ad albergare il meccanismo perfetto della repressione. Là dove anche nel sonno, nel meritato riposo, è possibile individuare, scrive, “la luce e le tenebre dell’umanità, il suo miele e il suo veleno, la sua grandezza e la sua miseria”.
La prima edizione del “Palazzo dei Sogni”, pubblicato in Albania nel 1981, porta con sé un episodio che, a raccontarlo oggi, sembra un frammento stesso del romanzo. Inventato dallo scrittore, insomma, non partorito dalle bizzarie della Storia. Proprio in quell’anno, infatti, Hoxha decise di far arrestare e, poi, di mandare a morte alcuni dirigenti del Partito con l’accusa di attività controrivoluzionaria. Ma l’aspetto grottesco e inquietante è che la stessa sorte non fosse toccata a Ismail Kadare, visto che proprio nel suo censurato romanzo descriveva una sorta di resa dei conti con la famiglia dei Qyprillinj, una delle più antiche e pià potenti dell’Impero Ottomano.
Messo al bando dal regime comunista albanese, “Il Palazzo dei Sogni” sarebbe rinato dalle proprie ceneri quasi dieci anni più tardi. Quando Ismail Kadare decise che era arrivato in momento di lasciare la sua Albania per trasferirsi in Francia e riproporre questa storia in un’edizione soltanto leggermente diversa. Tanto che, ancora oggi, i lettori possano trovare alcune differenze tra la traduzione di Francesco Bruno, condotta sul testo francese, che Longanesi distribuì nelle librerie italiane nel 1991, e quella nuovissima di Liljana Cuka, pubblicata pochi mesi orsaono da La nave di Teseo (pagg. 221, euro 20). Non sono solo i dettagli linguistici, che nella nuova versione tratta dall’originale albanese valorizzano la prosa dell’autore così esatta, tagliente, eppure visionaria e fortemente evocativa, ma anche una sorta di prologo al primo capitolo “La mattina”, poi sparito.
Tra l’altro, proprio quelle due pagine e mezza presenti nell’edizione Longanesi fanno capire bene perché, negli anni Novanta, alcuni critici e recensori accostarono la prosa di Ismail Kadare a quella di Dino Buzzati. Il prologo del “Palazzo dei Sogni”, poi tolto, fa pensare assolutamente all’inizio del “Deserto dei Tartari”: quando Giovanni Drogo si appresta a lasciare la sua casa e la città senza nome per raggiungere la Fortezza Bastiani. Lo scrittore albanese, però, ha sempre smentito un possibile influsso buzzatiano sui suoi libri. Intervistato da Erica Faye dell’Agenzia Reuter, per quella serie di dialoghi poi confluiti nel libro “Conversazioni con Kadare” (Guanda, 1991), così rispondeva: “Dino Buzzati, in effetti, l’ho letto. Qualche anno fa i giornali francesi avevano fatto degli accostamenti tra la sua opera e ‘Il generale dell’armata morta’, cosa abbastanza assurda perché a quell’epoca Buzzati non era ancora stato tradotto nel Paesi dell’Est. Credo del resto di non avere niente in comune con lui. Per prima cosa ho letto ‘Il deserto dei Tartari’ che mi è sembrato… molto freddo. Astraendosi mentalmente, si può dire che si tratta di un’idea brillante, ma dalla lettura non si trae alcun piacere”.
Al centro del “Palazzo dei Sogni” c’è un personaggio enigmatico. Mark-Alem è membro di una delle più potenti famiglìie dell’Impero Ottomano: i Qyprillinj. E grazie all’intercessione di certi suoi parenti influenti, che pur provenendo dall’Albania a Istanbul godono di un rispetto immenso e sono considerati secondi soltanto al Sultano, entra a far parte della squadra di persone che lavorano al Tabir Sarraj. Conosciuto come il Palazzo dei Sogni. Una struttura misteriosa, voluta dai vertici stessi dell’Impero Ottomano, a cui è affidato il compito di raccogliere, analizzare e interpretare i sogni di tutti i sudditi. Per aiutare il Potere a capire i sentimenti, i desideri, i potenziali pericoli che prendono forma nelle menti di chi è costretto a rispettare le regole ferree imposte dall’alto.
Funzionari preziosi, insomma, rotelle di una catena di montaggio destinata a estendere un controllo minuzioso sull’intero territorio dell’Impero. Eppure, schiavi del Potere loro stessi. Condannati, in qualsiasi momento, a essere spostati, cancellati, spazzati via.
Nessun Potere è mai al riparo dalle trame oscure che si agitano dietro un’apparente e sbandierata fedeltà al Sultano. Mark-Alem lo scoprirà soltanto vivendo la quotidiana, surreale missione di chi deve passare al setaccio milioni di fantasie notturne per trovare, tra esse, l’unico Sogno-Guida. Una sorta di premonizione assoluta di quello che potrebbe accadere di lì a breve. Mentre il Tabir Serraj alberga, dentro i suoi corridoi infiniti, nel dedalo di stanze abitate da persone senza volto e senza nome, in una ragnatela di responsabilità sempre più elevate che mutano e svaniscono a seconda delle bizze e degli umori del Sultano, un’imperscrutabile sovrapporsi di trame oscure. Di congiure intrecciate, che finiscono per annullarsi tra loro. Perché il Palazzo dei Sogni “è il più impersonale di tutti, il più cieco, il più fatale, dunque, proprio per questo, il più statale”.
Leggendo quest’ottima traduzione del “Palazzo dei Sogni” viene da pensare che il destino del protagonista, in qualche modo, riecheggia la sorte toccata allo scrittore. Negli anni in cui Ismail Kadare metteva mano al suo surreale libro, infatti, era deputato al Parlamento albanese, faceva parte dell’Unione degli scrittori e artisti, era vicepresidente del Fronte democratico e direttore di una rivista letteraria. Il Potere, su di lui, esercitava un controllo, una censura, assai subdola. Lo attaccava per il contenuto dei suoi libri, lo obbligava a non pubblicare per lunghi periodi. lo teneva alla larga dal carcere, dal plotone d’esecuzione, pproprio perché lo incatenava a una serie di controlli e di divieti soffocanti, snervanti.
Come Mark-Alem, Ismail Kadare ha sempre pensato che il controllo occulto, asfissiante, subdolo, su di lui, assomigliasse a quello che il Sultano esercitava dal Palazzo dei Sogni. E lo scrittore, come il protagonista del romanzo, “avrebbe preferito essere in un campo gelido o in un foresta infestata dai lupi”. Piuttosto che vivere con l’occhio del Potere sempre pronto a radiografarlo. A farlo sentire prigioniero in casa propria.
<Alessandro Mezzena Lona