“Il rifiuto puro e arido è malvagio”. Lo diceva Pier Paolo Pasolini, quando contestava ai contestatori, ai sessantottini, e poi a tutte le ondate future di ribelli, “di avere pronunciato senza discriminazione una condanna totale e intransigente contro tutti i padri”. Negandosi di avere con loro “un rapporto dialettico attraverso cui superarli, andare avanti”. E così, concludeva il poeta e regista di Casarsa, “attraverso il rifiuto, i giovani si trovarono fermi nella storia”
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Sembra una sentenza molto dura, definitiva, che non lascia vie di fuga. Ma le parole di Pasolini, ancora una volta, sono le uniche pronunciate da un intellettuale italiano del ‘900 che ci permettono di leggere, interpretare, capire lo scontro frontale che ha dilaniato e insanguinato l’Italia della fine del ‘900. Il braccio di ferro, insomma, che opponeva quella che si proclamava avanguardia della rivoluzione, un non foltissimo gruppo di dogmatici sognatori convinto che fossero loro a dover dare fuoco alla miccia della ribellione proletaria e anticapitalista, e uno Stato indubbiamente corrotto, traballante, prigioniero di oscure tentazioni dittatoriali. Però, al tempo stesso, ben saldo nel provare a difendere una democrazia imperfetta. Indubbiamente piena di difetti e di ingiustizie, ma pur sempre migliore di un modello di società costruito a colpi di pistola, di molotov e di raffiche di mitraglietta. Un mondo costruito su fondamenta insanguinate.
Non a caso, Antonio Iovane è partito proprio da lì. Da quelle parole lucide e profetiche di Pasolini, messe in esergo al suo terzo romanzo “Il brigatista”, pubblicato da minimum fax (pagg. 404, euro 17). Un libro, quello del giornalista romano di Radio Capital, già conosciuto per “La gang dei senzamore” e “Ti credevo più romantico”, che proietta il lettore a ritroso nel tempo. Verso i complicati, tenebrosi, ma pur sempre affascinanti, e ancora tutti da interpretare, anni ’70 e ’80.
Il brigatista del titolo è Jacopo Varega. Un ragazzo come tanti nell’Italia che stava abbandonando i riti del mondo contadino per assuefarsi a quelli più alienanti del pianeta industriale. Un operaio che dagli ambienti malsani della fabbrica si incantava a guardare, oltre il muro, “il palazzo vetrato dei dirigenti e dei colletti bianchi”. E sognava che, un giorno, “anch’io avrei abitato quel palazzo; nel mondo borghese costruito sul denaro c’è solo un modo per dirlo: io volevo contare, e questa era tutta la mia aspirazione. Contare”.
Ma, accanto a lui, c’era chi la pensava in maniera diametralmente opposta. Come l’amico Claudio Santoli, quello che provava a farlo ragionare sull’ingiustizia di un sistema che sfrutta gli operai. Che li guarda morire sul lavoro senza scomporsi :”Ti sfruttano e ti fanno sentire anche grato di essere sfruttato”. Eppure, una via di fuga c’era, eccome: ribellarsi. Non con gli inutili volantinaggi, con gli ormai ridicoli scioperi e cortei. No: “Il potere nasce dalla canna del fucile”. Bisognava trovare il coraggio di diventare l’avanguardia della rivoluzione. “Punirne uno per educarne cento”, era la base di quella filosofia. Mirare al cuore dello Stato, tentare di destrutturarlo, di farlo implodere e poi esplodere. Solo così avrebbe preso forma un mondo nuovo, un’Italia diversa. Dove avrebbe trionfato la giustizia proletaria.
Il mito del rifiuto dei padri, si sa, ha un fascino forte. Così Jacopo Varega decide di fare il salto. Mette in sonno gli scrupoli, le perplessità, e si rende disponibile per le prime azioni per “colpire il Capitale”. Perché loro, le Brigate Rosse, non sono nient’altro che una formazione armata nata per “mobilitare gli operai”. Per svegliare le coscienze di chi è stato ipnotizzato da troppi anni di duro lavoro, dal mito del benessere e del consumo, dalle sirene di una vita agiata e tranquilla. Hanno soltanto un difetto. Macroscopico, pesante come il più pesante dei macigni: sono prigionieri dei loro astrusi dogmi. Sono incapaci di guardare con occhi limpidi la realtà che sta al di là dei loro schemi ideologici.
Le Br si muovevano, questo è giusto ricordarlo, in un’Italia in cui oscure trame, che riportavano dritte a personaggi ambigui e uomini dei servizi segreti dello Stato, facevano esplodere bombe nelle banche, nelle piazze, a bordo dei treni, nelle stazioni. Sembrava che ci fosse in atto una guerra intestina tra un Paese tenacemente aggrappato alle regole del vivere civile e un altro Paese, pronto alla fuga violenta verso una dittatura nello stile del Cile di Pinochet, della Grecia del Colonnelli. E proprio in mezzo, stavano loro: i combattenti comunisti. Brigate Rosse, Prima Linea e altre formazioni accecate da un’ideologia troppo schematica e velleitaria. Infiltrate, esse stesse, da inquietanti doppiogiochisti. Capeggiate o da dogmatici sognatori, incapaci di andare al di là dei propri rigidi schemi mentali, o da intransigenti e violenti giocatori d’azzardo. Che, forse inconsciamente, ma assai più probabilmente consci di essere burattini nelle mani altrui, lautamente remunerati, si prestavano a partecipare alla lurida partita di chi puntava solo a destabilizzare, a destrutturare il vecchio Potere. Per piazzare, poi, nelle posizioni giuste i propri fedelissimi.
Antonio Iovane, facendo raccontare dal suo “Brigatista” Jacopo Varega, in una lunga intervista rilasciata alla giornalista Ornella Gianca, gli anni terribili del sequestro di Aldo Moro, della sua lunga prigionia, dell’agonia della famiglia e del mondo intero nell’attesa che venisse eseguita la condanna di morte, ripercorre con grande lucidità gli anni confusi, ambigui, disperati e vitalissimi delle Brigate Rosse. Senza dimenticare, per un solo istante, quello che proprio di recente è stato confermato da politici di lungo corso della Prima Repubblica come Rino Formica: ovvero, che gli apparati dello Stato sapevano bene dov’era la prigione in cui languiva lo statista democristiano. Ma si è preferito far finta di non vedere. Perché altri avevano già scritto la sua sentenza di morte.
Documentato, lucido, secco e per nulla retorico, mai di parte, né in un senso né nell’altro, capace di tenere alta la tensione narrativa mescolando fatti reali alla finzione romanzesca, “Il brigatista” di Antonio Iovane esplora un’Italia confusa, dilaniata, incerta sulla strada giusta da seguire. Un Paese in cui si rispose alla violenza brutale delle Br con la tortura nelle carceri. Un microcosmo in cui convivevano uomini d’azione come il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e loschi personaggi come Licio Gelli, giornalisti intransigenti come Indro Montanelli e intellettuali non mai certi da che parte fosse giusto stare. Tanto da coniare il motto: “Né con lo Stato né con le Br”.
Uno scenario politico e sociale che finirà in frantumi, dopo la morte di Moro. E che non riuscirà mai più a ritrovare la sua identità,. Continuando a rifiutarsi ostinatamente di gettare uno sguardo alle spalle. Di fare i conti con quel passato, che non potrà passare mai. Perché “i veri misteri sono quelli che si sono presi gioco della Storia rimanendone fuori”. E i conti il sogno rivoluzionario delle Br, finito nel sangue, li dobbiamo ancora fare.
<Alessandro Mezzena Lona<