Non è bello andare al cinema con un groppo d’ansia dentro lo stomaco. Un senso di angoscia che sale spontaneo fino al cuore quando ci si rende conto che, sullo schermo, non passerà un film qualsiasi. Ma il sequel di quello che è stato uno degli oggetti di culto della cinematografia anni Ottanta. Insomma, stiamo parlando di un’avventura arrivata dagli anni 2.0 per ricreare le atmosfere, i personaggi, il mito di “Blade Runner” di Ridley Scott. Acclamato, di gran lunga, come il miglior omaggio visivo a quell’immenso e inimitabile visionario che è stato lo scrittore Philip K. Dick. Riconosciuto come il caposcuola di tutte le pellicole che, in seguito, hanno provato a immaginare e raccontare le possibili conseguenze di una convivenza tra uomini e macchine. Tra persone dotate di un cuore e un cervello e repliche di altissimo profilo tecnologico a caccia di una loro dimensione raziocinante, emozionale.
Ma, insomma, bisogna pur sempre fare i conti con il presente. Non si può vivere di ricordi e di miti ormai un po’ ammuffiti. E, allora, il consiglio spassionato è di mettere da parte l’ansia. Di andare a vedere “Blade Runner 2049” ripetendosi mentalmente che ogni opera nata dalla creatività è un altro capitolo nel divenire ciclopico del cinema, della letteratura, della pittura e della scultura. E che star lì a fare le pulci solo per non ammettere che anche un sequel può essere un ottimo film, risulta soltanto un ozioso gioco mentale.
Che Denis Villeneuve sia un ottimo regista non lo scopriamo oggi Basterebbe citare il suo elettrizzante thriller “Sicario”, con una strepitosa colonna sonora del genietto islandese Johann Johansson, e il recente “Arrival”, tratto dal racconto “Storia della tua vita” del sottovalutato scrittore Ted Chiang, che ha ottenuto otto nomination agli Oscar. Ma questo, ancora, non dice niente.
Ovviamente, la prova più difficile, per lui, era proprio questo “Blade Runner 2049”. Perché non solo il cineasta di Trois-Rivières doveva confrontarsi con un’eredità pesante come quella lasciata d Ridley Scott. Che, per inciso, nel divenire della sua carriera sembra aver perduto lui stesso la mano felice che lo aveva portato a dirigere alcune opere davvero notevoli (basterebbe citare “I duellanti”, ma soprattutto “Alien”). Ma gli era chiesto, per di più, di non allontanarsi troppo dal mondo di Dick. Da quegli “androidi che sognano pecore elettriche” (secondo il titolo originale del romanzo ispiratore di “Blade Runner”) nati dallo fantasia di uno scrittore che, a un certo punto della sua vita, ha cominciato a galleggiare tra i piani della realtà quotidiana e una serie di orizzonti immaginati, immaginari, perfettamente paralleli al nostro mondo. Nati soltanto dalla fantasia di un uomo che non si era certo negato droghe e stravizi?
Il mondo di Villeneuve è un futuro dove i replicanti hanno trovato un loro posto nella società. Si sono integrati, potremmo dire, dal momento che le colture sintetiche sono diventate indispensabili per la sopravvivenza del genere umano. Non per questo, però, tutto deve per forza filare liscio. Anzi, l’agente K, replicante di ultima generazione viene incaricato di “ritirare” i vecchi modelli Nexus ,che si sono ribellati al sistema e rischiano di fare soltanto danni. Quando riesce a scovare uno dei fuggiaschi, Sapper Morton, si trova, però, tra le mani, una grana del tutto imprevista. Accanto alla casa dell’androide eliminato, sepolta sotto un albero morto, , trova una scatola che contiene le ossa di un replicante Nexus femmina. Dalle analisi degli esperti salta fuori che a causare la morte sono state le complicazioni sopraggiunte in seguito a un intervento chirurgico. Non qualcosa di normale, ma un taglio cesareo.
Questo significa che, là fuori, cammina sulle proprie gambe un essere che non dovrebbe esistere. Perché è stato messo al mondo da una madre replicante. Sintetica. C’è di più: la Wallace Industries, che produce i replicanti moderni, riconosce nelle ossa ritrovate quelle dello scheletro di Rachael. L’androide femmina creata, a suo tempo, dalla Tyrell Corporation. Proprio la donna replicante che, nel primo “Blade Runner”, si era innamorata del cacciatore di androidi Rick Deckard, interpretato da Harrison Ford.
Svelare di più della trama sarebbe un delitto. Anche perché Villeneuve non costruisce un film pieno di colpo di scena. Anzi, preferisce affidarsi a una trama che qualcuno potrebbe definire esile, fragile, per irrobustirla con visioni di un futuro sospeso tra la nostalgia del passato e le accelerazioni irresistibili di sempre nuove diavolerie tecnologiche. Come la splendida invenzione della donna virtuale Joy (interpretata da Ana de Armas). Un’estensione dell’io profondo, dei sogni più arditi, delle illusioni più pericolose dell’agente K (l’imperturbabile, efficace Ryan Gosling). Creatura-ologramma che presto reclamerà il suo diritto a esistere per davvero, come accadeva in “Lei” di Spike Jonze. Finendo per confondere in maniera assai rischiosa i piani della realtà.
Alcune intuizioni visive di Villeneuve, e del suo staff di collaboratori, riescono a fargli perdonare i pochi, evidenti difetti del film. Basterebbe citare la scena in cui alcuni miti di un passato lontano rivivono grazie a un elaborato sistema di immagini capaci di ingannare, per la loro somiglianza con i soggetti reali. Entrano, così, in un futuro fatto di rottami e grattacieli altissimi, di tribù di disperati, cimiteri di statue e algidi laboratori, gli ologrammi del re del rock’n’roll Elvis Presley, seducenti visioni di Marilyn Monroe, spezzoni musicali de “The Voice” Frank Sinatra. E se un omaggio agli anni ’80 non poteva proprio mancare, allora spunta dal mito indiscutibile di “Blade Runner” un Harrison Ford che il tempo non ha saputo preservare dal decadimento fisico. Dalle rughe e dalla difficoltà di essere per sempre Indiana Jones.
Ma proprio lì, dentro il suo palazzo dove anche il cane che gli tiene compagnia potrebbe essere un prodotto sintetico, si compie il destino di questo bellissimo, imperfetto, commovente gioiello di Denis Villeneuve. Perché in un mondo dove niente sembra impossibile, a prendersi la scena è sempre e comunque l’essere umano. Libro vivente pieno di storie, dubbi, contraddizioni, difetti, paradossi. Moltiplicatore carnale di sogni inimitabili, che sanno ancora far battere forte il cuore.
<Alessandro Mezzena Lona