• 24/03/2018

Régis Jauffret: “Io, un cantastorie tra personaggi borderline”

Régis Jauffret: “Io, un cantastorie tra personaggi borderline”

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Régis Jauffret ama le storie. Con tutta la forza del suo essere scrittore, uno dei più bravi di Francia. Anche se finora, in Italia, non ha ottenuto la stessa visibilità di Michel Houellebecq, lo stesso successo di Emmanuel Carrère. Forse perché lui, l’autore nato a Marsiglia, preferisce raccontare vite di personaggi che stanno sempre al limite. Che sfidano la realtà come se non ci fosse un’alternativa. Che affondano nel magma dell’esistenza fino a farsi male. Fino a non avere più una via d’uscita

Chi ha letto “Dark Paris Blues” sa che Régis Jauffret non cerca mai delle scorciatoie, quando racconta. Perché la forza inquietante dei suoi personaggi, delle sue storie, nasce proprio dal coraggio di non fermarsi davanti alla paura di valicare il limite. Di perdere la propria umanità. Di esplorare territori su cui bisogna camminare in punta di piedi, come fossero campi disseminati di mine pronte a esplodere. “Cannibali” ad esempio, tradotto da Federica Di Lella per le Edizioni Clichy (pagg. 187, euro 17), mette in scena due donne e il fantasma di un uomo. Quando la giovane Noémie comincia un dialogo epistolare, complicato e necessario, con la più vecchia Jeanne, madre del suo ex compagno, perché il rapporto d’amore con Geoffrey è finito.

Partendo da un botta e risposta spinoso, irto di diffidenza e insulti, tra le due donne si stabilisce lentamente una precaria, strana sintonia. Un rapporto malato che le porterà a progettare, a sognare una rivincita estrema e terribile nei confronti di Geoffrey. Ma che le trascinerà anche verso una pericolosa perdita di identità, quando nel fitto scambio di lettere tra loro si inserirà un elemento disturbante, perturbante, che metterà in dubbio la reale sequenza dei fatti che raccontati e rievocati. Fino a instillare nel lettore il dubbio che siano davvero Noémie e Jeanne (o uno sfuggente “altro”?) le protagoniste di quel dialogo a distanza.

“C’è solo un tipo di personaggi che mi interessa – spiega Régis Jauffret, invitato a Milano tra gli ospiti della quarta edizione di Book Pride, la Fiera dell’editoria indipendente che si svolge negli splendidi spazi del Base – cioè quelli borderline. Persone in crisi, estreme, fragili e a volte diaboliche. Ecco, quando costruisco una storia penso a loro. Parto da loro”.

“Cannibali” lascia al lettore il compito di stabilire come andrà la storia?

“Credo che il romanzo sia costruito in maniera molto chiara. Sono i personaggi delle due protagoniste, Noémie e Jeanne, che non sono per niente razionali. Hanno un comportamento perverso, non soltanto nei confronti di Geoffrey, che è l’ex amante dell’una e il figlio dell’altra. Ma anche tra di loro. Perché non giocano mai a carte scoperte. Ho voluto scrivere un libro dove la lingua e la struttura narrativa siano estremamente limpidi, per lasciare spazio poi a tutto il grado di follia che portano nella storia i personaggi”.

Come si fa immaginare una storia attraverso due voci di donna?

“Mi viene naturale raccontare una storia con voce femminile. Non mi sono mai posto il problema in maniera limpida, lucida. È un talento inconscio”.

La ribellione di Noémie e Jeanne al tempo del caso Weinstein, della rivolta delle donne. Solo un caso?

“Assolutamente sì. i miei libri sono pieni di personaggi femminili, perché mi affascinano. Certo, in ‘Cannibali’ ci sono due donne che si ribellano a un uomo. Però voglio ricordare che quattro anni fa, nel 2014, ho scritto un libro non tradotto in italiano che si intitola ‘La ballade de Rikers Island’ che affronta l’affare Strauss Kahn. Ovvero, la storia dell’economista e politico francese accusato da molte donne di violenza. È stato condannato lui, ma anche il mio libro per diffamazione. In pratica, i giudici francesi non hanno ritenuto valido il fatto che l’opera fosse un romanzo e non un saggio. Quindi hanno condannato la libertà letteraria di inventare, pur partendo da dati di fatto reali”.

Difficile pubblicare in Francia romanzi come i suoi?

“Adesso che sono conosciuto non più. Però, certo, come avviene in Italia, anche in Francia il mercato richiede altri tipi di romanzo. Più commerciali, più facili da vendere al pubblico”.

Quando ha scoperto lo scrittore che è in lei?

“Scrivo da quando avevo 16 anni. Però sono riuscito a pubblicare il libro di debutto molto tempo dopo, quando ne avevo 30. I primi romanzi non hanno avuto alcun successo, per sette anni non ho pubblicato niente, anche se continuavo a elaborare storie in silenzio. Poi, finalmente, tra gli anni ’90 e l’inizio del terzo millennio, gli ambienti letterari francesi si sono accorti che esistevo. Tanto che nel 2003 ho vinto il Prix Décembre con ‘Univers, univers” e nel 2005 il Fémina con ‘Asiles des fous”. Da allora è stato un po’ più facile”.

La letteratura è un modo per mettere il dito nella piaga?

“Non c’è mai premeditazione nella mia scrittura. Non voglio scuotere il lettore, anche se affrontando l’affare Strauss Kahn l’ho fatto. Però il mio vero obiettivo è quello di raccontare storie. Poi, tocca agli altri analizzarle. Se fossi nato prima che la scrittura venisse codificata sarei stato un cantastorie”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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