• 23/03/2018

Emma Glass: “Scrivere è una sinfonia di parole”

Emma Glass: “Scrivere è una sinfonia di parole”

Emma Glass: “Scrivere è una sinfonia di parole” 225 225 alemezlo
Si sentiva un po’ un’aliena, Emma Glass. Perché molti dei suoi compagni di corso della scuola di scrittura creativa, a Londra, erano pronti a sfornare romanzi di alto concetto. Storie perfettamente strutturate, proprio come suggeriva il professore. Lei, al contrario, voleva lavorare a un’idea che portasse al centro del discorso il linguaggio. Le parole. Esattamente come aveva fatto Gertrude Stein, o molti anni prima James Joyce, due tra gli autori che amava di più. Anche perché, dentro di lei, stava prendendo forma il personaggio di Peach. Un ragazza dalla voce forte, ma ancora sfuggente. Un personaggio violato nella carne, perseguitato, terrorizzato, che chiedeva di prendere forma dentro un incubo narrativo, forte come una favola nera, immaginifico come uno stream of consciousness, il flusso di coscienza che ha dato linfa al romanzo del ‘900. Libero di stupire e scuotere come uno schiaffo che colpisce all’improvviso.

Così, in una folgorante epifania creativa, ha preso forma uno dei romanzi di debutto più forti e originali pubblicati negli ultimi anni. Ovvero, “La carne”, splendidamente tradotto in italiano da Franca Cavagnoli e pubblicato da il Saggiatore (pagg, 118, euro 17), che Emma Glass presenterà domenica 25 marzo nell’ambito di Book Pride, la Fiera dell’editoria indipendente arrivata alla quarta edizione, negli splendidi spazi del Base di Milano.

Peach è una voce che, piano piano, rivela il suo corpo. È una giovane donna che ha scelto di essere vegetariana perché prova orrore per la carne. È una ragazza del tutto normale, che ama Green a sua volta riamata, che vive con due genitori baciati ancora dalla fortuna di stare bene insieme, di desiderarsi sessualmente anche dopo tanti anni di convivenza. Una giovane donna, insomma, che va a scuola, nuota, vede gli amici e il fidanzato. Ma che non sa darsi pace perché, da tempo, nello spazio dei suoi giorni si è materializzata un’ombra minacciosa. Un uomo che assomiglia agli orchi delle favole. Un essere grasso, debordante, fatto di salsicce. Che puzza come un barbecue ambulante, che le manda lettere d’amore ingrassate da una vischiosa e stomachevole oleosità. Ma, soprattutto, che sembra vivere al confine tra la realtà e l’incubo.

Peach sanguina perché l’uomo l’ha aggredita. Peach vomita e nasconde il suo turbamento. Peach è terrorizzata di portare dentro di sé l’immonda creatura che quell’orrido individuo potrebbe averle inoculato nelle viscere. E, all’improvviso, comincia a ingrossarsi, lievitare, gonfiarsi, apparentemente senza un motivo. Perché i medici, le analisi, i test, confermano che lei non è incinta. Eppure, quella pienezza anomala la tormenta fino a quando la ragazza capisce che solo rimuovendo l’essere che la terrorizza potrà ritornare a vivere normalmente. Ma dovrà inventare un atto estremo. Caricandosi sulle spalle un gesto terribile e definitivo potrà spazzare via dal proprio orizzonte l’oscurità di chi si apposta fuori casa per farle ancora violenza.

“Vischiosa appiccicosa appiccica appiccicaticcia lana lacerata bagnata, avvolta intorno alle ferite, cuce la cute squarciata mentre cammino, raschio la mano guantata contro il muro”. Ascoltando risuonare le parole, giocando con le assonanze, lasciando rimbombare le dissonanze, Emma Glass costruisce uno degli incipit più originali e ipnotizzanti della letteratura di questi anni. Una sinfonia di parole. Poi prosegue affidandosi al fluire della lingua, al desiderio di lasciare che la storia prenda forma soltanto dal rimpallarsi, dall’inseguirsi, dal completarsi e dal dividersi delle frasi. “Mattoni rossi ruvidi rompono la lana. Rompono la pelle. Pelle rossa ruvida. Testa rossa ruvida. Tiro via il guanto di pelo dalle dita con una smorfia, mentre i fili strappati si aggrappano ai graffi delle nocche. È buio, il sangue è nero. Secco. Crepa crepitio crepitante. L’odore di grasso bruciato mi intasa le narici”.

Non c’è un finale consolatorio a chiudere “La carne”. Non ci sono risposte alle molte domande che il lettore finisce per porsi, mentre segue Peach andare incontro al proprio destino. Un po’ come nei film di David Lynch, dove spetta a ogni singolo spettatore individuare il percorso narrativo seguito dal regista, fino ad accorgersi che il vero senso della storia non sta nelle risposte, Ma nelle domande.

“Amo il cinema di Lynch, ma ancora di più la letteratura gotica, gli scrittori che sanno raccontare storie inquiete – spiega Emma Glass, che di lavoro fa l’infermiera pediatrica Londra -. Penso a Edgar Allan Poe. Ma potrei anche parlare di certe serie televisive, che in Italia non sono ancora famose, ma che sanno dare voce all’inquietudine. Il mio lavoro è stato influenzato anche da altri grandi autori. Penso a James Joyce, a Gertrude Stein, ma anche a una musicista, una cantante che ha incontrato il successo, pur senza rinunciare a se stessa come Kate Bush”.

Ma come ha preso forma la voce, il personaggio di Peach?

“Nella mia testa si stava facendo spazio l’immagine di una persona senza volto. Solo in un secondo momento ho capito che si trattava di una ragazza. Sentivo che questa figura, ancora anonima, era molto frustrata e triste. E non riuscivo a capire perché”.

Poi è arrivato l’uomo fatto di salsicce?

“Quando ho messo meglio a fuoco Peach, ho capito che c’era un problema nella vita delle ragazza. Un pensiero, un incubo, qualcosa che galleggiava tra la realtà e l’immaginazione. Un uomo pronto a farle del male, a prendere il suo corpo, ma al tempo stesso a infettare la sua vita. A spargere attorno a lei il lezzo di grasso, di carne di maiale. Qualcosa che le dà la nausea, che la ossessiona, visto che lei è vegetariana e ha deciso di resistere alle insistente dei genitori, e di chi le sta accanto, ad abbassare la guardia, ad assaggiare almeno un pezzo di carne”.

Ma la voce di Peach non poteva parlare seguendo il ritmo di un romanzo normale…

“Infatti, ho capito subito che dovevo trovare un ritmo particolare nel mio modo di scrivere. E l’unica via possibile era quella dello ‘stream of consciousness’. Così nel 2016 ho ripreso il mio manoscritto e l’ho rimodellato. Lasciando che fossero le parole a condurre la danza”.

Scrivere, per lei, significa trovare la voce giusta, la sintonia con la lingua?

“Non ricordo di avere seminato per casa altri tentativi di romanzo, racconti, prima di questo. Per me la scrittura è partita da lì, dalla voce di quella ragazza violentata. Dalla sua rabbia e dalla frustrazione. Ma non volevo scrivere un romanzo sulla violenza alle donne. Mi interessava, piuttosto, capire che cosa provoca all’interno di una persona un’esperienza così estrema. Come reagisce la sua mente. Quando in profondità, dentro di lei, scende il ricordo di quei momenti”.

Dopo aver letto “La carne” (o “Peach”, come recita il titolo originale del libro), George Saunders, lo scrittore americano di Amarillo che ha vinto il Man Booker Prize con il romanzo “Lincoln nel Bardo”, ha detto che il coraggio di Emma Glass “rinnova la fede nel potere della letteratura”. E c’è da scommettere che una benedizione così sincera e importante porterà fortuna alla giovane autrice britannica.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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