• 16/04/2018

Gianfranco Calligarich, così si ride con un Premio Viareggio

Gianfranco Calligarich, così si ride con un Premio Viareggio

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Vinto il Premio Viareggio, uno scrittore che fa? Tenta di pubblicare prestissimo un nuovo romanzo, il più possibile simile a quello che lo ha spinto verso il successo. Normale sia così. E invece no, perché Gianfranco Calligarich, di libri pronti ne aveva uno dentro il proverbiale cassetto.  Già da un po’ di tempo. Bello, bellissimo, scoppiettante e divertente, ma come dire: totalmente diverso da “La malinconia dei Crusich”. Una storia che niente aveva da spartire con la saga familiare capace di portarsi a casa, oltre al riconoscimento ideato da Leonida Rèpaci, anche il Fiuggi.

E allora? Un altro editore avrebbe detto: aspettiamo. Beatrice Masini, stimata scrittrice e traduttrice che da un paio d’anni guida con fiuto e intelligenza le scelte librarie di Bompiani, al contrario ha incoraggiato Gianfranco Calligarich a riportare alla luce il romanzo dormiente. A rileggerlo, rivederlo, smussandone gli angoli, piallando i passaggi che avevano bisogno di una piccola revisione. È arrivato così nelle librerie uno dei testi italiani più divertenti degli ultimi anni: “Quattro uomini in fuga” (pagg. 303, euro 18). Pirotecnica commedia ambientata tra la Pianura Padana e Roma, tra i sogni di ricchezza covati nella provincia italiana più profonda e i sogni di gloria bruciati in fretta nella magnifica indolenza della Città Immortale.

Un libro, si diceva, che per nulla assomiglia alla saga dei Crusich. E qui bisogna fermarsi un attimo e mettere un po’ meglio a fuoco Gianfranco Calligarich scrittore. Nato all’Asmara da famiglia di origine triestina, cresciuto a Milano per poi trasferirsi a Roma, prima di cimentarsi con la scrittura letteraria ha lavorato per un bel po’ come giornalista e sceneggiatore. Autore per la Rai di autentici successi televisivi (“Storia di Anna”, “Piccolo mondo antico”), nel 1994 ha fondato nella capitale il Teatro XX Secolo. Vincendo premi con le pièce da lui scritte “Grandi balene” e “Solo per la tua bocca”.

Ma è stato come narratore che Calligarich si è fatto notare già negli anni Settanta. Quando, esattamente nel 1973, ha pubblicato con Garzanti il suo romanzo d’esordio “L’ultima estate in città”, riproposto poi in ben due altre edizioni: nel 20910 da Aragno e nel 2016 da Bompiani. Libro salutato subito dal Premio Inedito e da importanti pareri critici del tutto favorevoli. Come quelli, tanto per fare due nomi, di Natalia Ginzburg e Cesare Garboli.

Sembrava che proprio quel folgorante inizio avesse tracciato la strada maestra dello scrittore. Visto che il ritratto ironico, amaro e disincantato di un uomo del nostro tempo, che si muove tra mestieri precari e rapporti umani traballanti, de “L’ultima estate in città” poteva generare una galleria di altri personaggi pronti a un faccia a faccia tragico e realissimo con la vita. Caratteri sbozzati con grande felicità letteraria in “Privati abissi” del 2011 (di cui uscirà a breve una nuova edizione Bompiani), in “Principessa” del 2013 e in quel tormentato gioiellino, scavato nella carne e nel patrimonio di storie della propria saga familiare, che è “La malinconia dei Crusich” del 2016.

Tutto bene, se a rendere meno lineare questo percorso non fosse arrivato, nel 2003, un libro bellissimo come “Posta prioritaria”. Un cambio di rotta brusco e affascinante, rispetto a “L’ultima estate in città”. 23 racconti lunghi non più di sei, otto pagine, che si addentrano senza pietà nelle difficoltà del mestiere di vivere. Con un’irresistibile vena ironica che riesce a smantellare, a demistificare, a mettere alla berlina anche gli avvenimenti più complicati. La rivelazione, insomma, di un altro Gianfranco Calligarich. Di uno scrittore capace di scendere nei privati abissi dell’anima, ma anche di trarre da quel viaggio nella penombra luminosissime schegge di luce.

E se “Posta prioritaria”, riproposto nel 2015 da Bompiani con qualche storia in più, sembrava destinato a restare una meteora nella carriera letteraria di Calligarich, “Quattro uomini in fuga” arriva adesso a confermare che questo scrittore (troppo bravo per l’Italia, come sostiene qualcuno?) sa maneggiare, con grande disinvoltura e abilità, non uno solo, sempre lo stesso, registro narrativo. Ma un caleidoscopio di situazioni, di toni, di colori, di umori.

A costruire il romanzo, sotto gli occhi del lettore, è una voce narrante che chiede di essere chiamato Casablanca, omaggio sfacciato al “Chiamatemi Ismaele” che apre uno dei capolavori assoluti della letteratura mondiale: il “Moby Dick” di Herman Melville. Un tipo che non ama prendere decisioni, che vivrebbe molto volentieri defilato, ma che si trova coinvolto nel sogno folle dei suoi tre soliti amici. E sì, perché Paolo, Elio e Sauro progettano di rapire un preziosissimo e prolifico toro da monta, Short Horn, di chiuderlo dentro una suite al Jolly Hotel e poi chiedere un riscatto da capogiro.

Come si fa a progettare un piano così folle? Semplice, basta guardare i quattro della banda un po’ più da vicino. Paolo, faccia da Jack Palance, è uno che gira in Ferrari quando ha i soldi per pagarsi la benzina; Elio, incurabile avaro, aspetta solo il momento giusto per fuggire dalla moglie; Sauro, mani d’oro per le ceramiche e abbigliamento da dongiovanni di provincia, non sa decidersi ad abbandonare gli improbabili corteggiamenti alle donne per riconoscere che a lui, in realtà, piacciono gli uomini. E Casablanca stesso, fallito l’affare Short Horn, si ritroverà coinvolto in un altrettanto impossibile progetto teatrale dentro una fontana di Michelangelo a Roma. Idea messa a punto per accontentare i capricci di un’ossuta femme fatale, l’altissima Samanta, e condiviso, per lo spazio di un sogno troppo bello per essere vero, da un miliardario che chiede soltanto un favore alla vita: quello di riuscire a mettere al mondo un figlio maschio, dopo tante femmine. Per liberarsi dalla tormentosa malinconia di non poter condividere un patrimonio pazzesco con un “vero erede”.

Scritto con ritmo serrato, pieno di invenzioni a cui è impossibile resistere senza farsi una bella risata, questo plateale omaggio al vecchio, insuperabile cinema hollywoodiano è la perfetta commedia all’italiana che nessuno scrittore e nessun regista, finora, era riuscito a mettere assieme. E la giuria del Premio Viareggio può andare fiera di avere riconosciuto in Gianfranco Calligarich uno scrittore vero. Perché lui sa costruire storie. A volte tragiche, a volte comiche. Sempre capaci di raccontare il mistero buffo che sta appollaiato tra il cervello, lo stomaco e il cuore.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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