Si può guarire dalle storie. O, meglio, c’è una possibilità concreta di riuscire a gestire, a migliorare, a umanizzare certe esperienze, spesso traumatiche ed estreme, che la vita ci porta a sperimentare, subire, soffrire. Perché Paolo Cendon è convinto che non esistano soggetti deboli in linea assoluta. Al contrario, nel mondo, “ci sono creature ‘indebolite’; per colpa della mancata fornitura, ad opera di chi dovrebbe, delle rimozioni indispensabili”. E allora serve qualcuno che tenga lo sguardo fisso “sui movimenti dell’autorità tenuta a ‘far cadere i muri’. a ‘smussare quei gradini’, e non lo sposti di lì fino allo sblocco”.
Come dire che serve una figura di “debolologo”. Uno come Paolo Cendon, appunto, che da professore di Diritto privato all’Università di Trieste non ha mai abbassato lo sguardo. Non ha mai perso di vista chi dovrebbe fare l’impossibile per rendere più facili, vivibili, “normali”, le giornate delle persone più deboli. Per quarant’anni si è messo ad ascoltare le storie di chi fa fatica a farsi sentire, ha ragionato con medici, psichiatri e giuristi su come la società tutta, ma soprattutto chi amministra la cosa pubblica, può e deve sforzarsi di risolvere i problemi quotidiani dei soggetti che soffrono violenze fisiche e morali, che hanno bisogno di cure e di assistenza, che non possono gestire i propri problemi perché non c’è nessuno che dia loro una mano.
Adesso, quel lungo percorso, quell’accavallarsi di storie vere, quei tentativi di richiamare l’attenzione del legislatore, di fare forza sul senso di responsabilità dell’amministratore, stanno dentro un libro. Non un trattato che leggeranno solo i soliti quattro esperti, o qualche laureando in cerca di testi da aggiungere alla bibliografia. No, “I diritti dei più fragili”, pubblicato da Rizzoli (pagg. 236, euro 22), ha il fascino di un romanzo autobiografico, la forza di un pamphlet di denuncia, la serietà e la capacità di approfondimento di un saggio.
Forse Cendon non è arrivato per caso a calarsi nel ruolo del “debolologo” Lui stesso racconta, subito nelle prime pagine del libro, di avere conosciuto i “matti” molto da vicino. Quando la legge Basaglia, che ha portato alla chiusura dei manicomi, era soltanto un sogno. Suo padre dirigeva l’Economato della provincia di Venezia, che allora aveva sede a Ca’ Corner sul Canal Grande. Tra i suoi compiti c’era anche quello di occuparsi dell’approvvigionamento degli enti che erano sotto la giurisdizione dell’amministrazione locale, tra cui l’ospedale psichiatrico. Due ce n’erano nella Serenissima: uno all’isola di San Clemente per le donne, l’altro a San Servolo per gli uomini. Ogni anno le suore organizzavano un frugale rinfresco, così il futuro docente di Diritto provato, ancora bambino, aveva visto per le prime volte da vicino chi veniva internato per qualche forma di malattia mentale. Vera o presunta che fosse. Visto che anche un semplice attacco di “malinconia”, un atteggiamento bizzarro, l’uso eccessivo di alcol, potevano portare sulla via di non ritorno delle cure psichiatriche. Spesso terribilmente invasive: basti pensare ai letti di contenzione, all’elettroshock, alla lobotomia.
Venezia stessa, con i suoi palazzi sbilenchi sospesi sull’acqua, l’alta marea pronta a intrufolarsi dappertutto, le voci inquiete che si rincorrevano tra le calli, era l’immagine di una grande bellezza sospesa sul baratro della precarietà. Ma, in realtà, Cendon si sarebbe sintonizzato per davvero con il mondo della sofferenza parecchi anni dopo, attorno ai primi ’80. Quando a Trieste, grazie a un amica che era operatrice in un centro di salute mentale, Sabina F., lui, che da poco aveva ottenuto la cattedra universitaria, aveva potuto conoscere più da vicino un pezzo d’Italia dove il manicomio non c’era più. Dove però la legge 180,. nata sull’onda della rivoluzione medica e sociale di Franco Basaglia, doveva essere ancora perfezionata. Integrata. Per non lasciare troppe persone a scontrarsi con problemi di ordine pratico. Per loro insormontabili come una montagna altissima.
Ecco, il Cendon “debolologo” è nato dalle storie. Dall’ascolto di vite complicate per mancanza di assistenza. Dal ragionamento, lucidissimo e allora del tutto in anticipo su dibattiti infuocati che ancora oggi animano la società, che dare ai soggetti deboli gli strumenti per gestire al meglio la propria vita significa reinserire nella realtà tutta una fascia di persone che, altrimenti, sarebbero irrimediabilmente emarginate. Abbandonate a se stesse.
Da lì, allora, l’idea di un primo convegno su “Un altro diritto per il malato di mente”, organizzato da Cendon alla Stazione Marittima di Trieste dal 12 al 14 giugno del 1986, e la stesura di un testo che hanno spianato la strada al concetto di “danno esistenziale” e all’introduzione della figura dell’amministratore di sostegno. Perché. come scrive l’autore ne “I diritti dei più fragili”, “poco sappiamo intorno al dolore: se si tratti di qualcosa legato al corpo, alla mente, quanto danaro serva per risarcirlo”. Se ne dovrebbero occupare i giuristi, i medici legali, o quale altra figura? Ma, soprattutto, chi è che può davvero tracciare un profilo del dolore esistenziale? “Manca una griglia tecnica, ancora, circa i riflessi: lavoro, affetti, politica, vacanze, creatività…”.
Proprio per questo, il lavoro di Cendon è tutt’altro che concluso. Tanto che lui sta lavorando una proposta di legge sul “dopo di noi”. Che significa, ad esempio, tranquillizzare i genitori di un ragazzo down, di chi soffre di handicap psichici e fisici, che il futuro del loro figlio non sarà scandito da abbandoni e difficoltà di relazionarsi con il mondo, quando loro non ci saranno più.
Ma seguendo i percorsi infiniti del libro, che racconta la realtà con le sue stesse ruvide, a volte raggelanti parole, ma anche con le metafore, con le visioni di film e libri entrati ormai nell’immaginario collettivo, ci si rende conto che le categorie di “deboli” sono sempre più in aumento. Basterebbe ricordare alcune vicende esemplari di donne violentate e umiliate non solo per strada, ma anche dentro i confini claustrofobici di un normalissimo matrimonio. Di ragazzi e ragazze insidiati, molestati e stuprati da irreprensibili educatori, allenatori, sacerdoti (come la protagonista del bellissimo saggio narrativo “L’orco in canonica” pubblicato da Cendon con Marsilio nel 2016. Di lavoratori torturati dal mobbing, di ex amici, ex amanti, ignari colleghi perseguitati dagli stalker.
Ma anche vicende che, a prima vista, non è affatto facile mettere a fuoco. Come quella di Marcello, un giovane con seri disturbi mentali, che si innamora di una Honda Jazz blu. E, pur non avendo la patente, vorrebbe acquistarla. Magari usata. Per passare un po’ di tempo al volante, fermo in giardino, a fare “wrumm wrumm” con la bocca. Sognando di viaggiare per il mondo a bordo di quel gioiellino meccanico.
Ecco, contro il parere dei parenti, davanti alla perplessità dell’amministratore di sostegno, il giudice interpellato ha emesso una sentenza favorevole a Marcello. Tanto che lui ha potuto acquistare la sua Honda Jazz, visto che i soldi li aveva, come usato d’occasione. E lasciarsi portare lontanissimo ogni giorno, al volante di quell’automobile ferma sul posto, dai suoi sessanta minuti di felicità.
<Alessandro Mezzena Lona