Chissà se è stato il suo primo, povero, sfortunato matrimonio, a farla diventare scrittrice. Oppure se, più dei tradimenti ripetuti del marito John Pemberton, a far crescere dentro Barbara Comyns il desiderio di scrivere sia stato quel suo saper guardare la realtà con occhi limpidi, acuti, severi. Liberi. E, al tempo stesso, con la capacità di cogliere il lato grottesco, accanto a quello tragico, del vivere. Per trasformare ogni storia che inventava in un incontro perfetto tra farsa e dramma. In un incrocio equilibrato tra apocalittiche premonizioni e umanissime debolezze.
Certo che, a leggere oggi i libri di Barbara Comyns, la scrittrice britannica nata a Bidford-on-Avon nel Warwickshire e morta nel 1992, dopo aver vissuto a lungo in Spagna con il secondo marito Richard Comyns Carr, ci si rende conto come questa scrittrice avrebbe meritato più fortuna. Dal momento che sapeva trovare un equilibrio straordinario, nelle pagine che andava inventando, tra le più oscure inquietudini del ‘900 e quella voglia, forse un po’ troppo rara nella narrativa europea, di cogliere l’aspetto grottesco dell’essere, anche nelle situazioni più drammatiche ed estreme.
E chi si fosse lasciato scappare “I miei anni a rincorrere il vento”, pubblicato da Rizzoli, non può perdere adesso l’appuntamento con un romanzo di Barbara Comyns davvero sorprendente. Si intitola “Chi è partito e chi è rimasto” (pagg. 135, euro 14), lo ha tradotto con grande attenzione e passione Cristina Pascotto per la casa editrice pordenonese Safarà, che sta facendo, da tempo ormai, un ottimo lavoro di riscoperta di opere e autori dimenticati troppo in fretta (basterebbe citare “Lanark. Una vita in quattro libri”, la sorprendente saga di Alasdair Gray), o anche di nomi nuovi che non trovano spazio nel mare immenso della produzione libraria italiana (anche qui, un nome su tutti: quello dell’americana Helen Phillips e della sua “Bella burocrate”, recensito da Arcane Storie nell’ottobre dell’anno scorso sotto il titolo “Le anonime, inquiete giornate della Bella burocrate”).
Una piccola apocalisse di campagna, uno scenario da fine del mondo, illumina di una malsana e plumbea atmosfera l’inizio di “Chi è partito e chi è rimasto”. Perché Barbara Comyns apre il suo romanzo sulla malsana inondazione che ha reso ancora più umida, fangosa e inquietante la già torbida campagna che circonda un villaggio dell’Inghilterra profonda alla fine dell’800. Dentro quella claustrofobica cornice l’aria si fa ancora più irrespirabile per la famiglia Willoweed. Una ben strana commistione di soggetti umani dominata, come un’Erinni furiosa, dalla terribile nonna. Una donna arrivata, ormai, al termine del suo percorso terreno, sorda al punto di doversi servire di uno scalcinato cornetto acustico, che continua a spadroneggiare in casa a suon di memorabili sfuriate, di bastonate alle servette di casa Eunice e Norah, di dispotico dominio sui nipoti: la timidissima, scialba, eppure fascinosa Emma, e i piccoli Dennis e Hattie, rimasti troppo presto senza la mamma, morta di parto insieme a quello che sarebbe stato il quarto fratello.
Ma chi si sente soffocare più di tutti, in quella casa, è il figlio della vecchia Willoweed, Ebin. Un giornalista fallito, un uomo che ha rinunciato a vivere dopo la morte della moglie e il licenziamento dal quotidiano per cui lavorava. Una grigia nullità che, all’ombra della madre folle e dispotica, tutto sommato ha saputo trovare il suo angolino di menefreghistica libertà. Rendendosi la vita un po’ meno amara tra un fugace incontro erotico con l’esuberante moglie del fornaio e un’uscita in barca sul fiume.
Una terribile epidemia di follia collettiva, seguita da una serie di morti misteriose, è pronta, però, a scompigliare il precario equilibrio che governa la vita in quel villaggio. All’improvviso, molte persone cominciano a dar di matto, a comportarsi come fossero indemoniate, a morire in mezzo a terribili dolori e convulsioni. Ma è possibile che tutto quell’inferno sia provocato da un nuovo impasto, fatto con la farina di segale, che lo scrupoloso e bravo fornaio del paese ha deciso di sperimentare?
Ammirevole per la sua capacità di raccontare il dritto e il rovescio dei personaggi, bravissima a tratteggiare una serie di figure indimenticabili, pur senza trascurare il brulicante vocio che cresce pagina dopo pagina per le strade del paese, Barbara Comyns regala ai lettori un romanzo breve, ma di fulminante intensità, in cui la grande lezione dei narratori del passato, Jane Austen davanti a tutti, trova il punto di contatto con l’inquieto mutare del romanzo novecentesco. Come se il Thomas Hardy di “Jude l’oscuro”, “Tess dei D’Urberville” e anche di “Via dalla pazza folla” si trovasse a scrivere una storia a più mani con Franz Kafka, con Bruno Schulz, o addirittura con la Marguerite Duras di quel libro straordinario che è “Una diga sul Pacifico”.
Bastano poche pagine per innamorarsi di “Chi è partito e chi è rimasto”. Folle e irridente, tragico e geniale nel suo saper cogliere il lato surreale anche nel bel mezzo di una serie impressionanti di tragici sconvolgimenti. Alla fine, dispiace solo che non esista un seguito del romanzo. E che Barbara Comyns sia morta molto prima che venissero alla ribalta le serie tv. Altrimenti, questa scrittrice scivolata nell’oblio troppo in fretta avrebbe fatto faville.
<Alessandro Mezzena Lona