• 20/03/2019

David Benatar: “La vera tragedia dell’essere uomini? È nascere”

David Benatar: “La vera tragedia dell’essere uomini? È nascere”

David Benatar: “La vera tragedia dell’essere uomini? È nascere” 275 183 alemezlo
C’è chi ha messo il diritto a trovare la felicità nell’atto fondante della propria nazione.Perché è proprio dell’uomo sognare, illudersi di lasciare alle spalle tutti i dolori che Madre Natura, “matrigna con i figli suoi” come diceva Giacomo Leopardi, gli regalerà nel corso della vita. Per vivere nel modo migliore possibile, per cercare il benessere. Ma c’è chi, invece, non smette di interrogarsi sul vero destino dell’uomo. Senza paura di lasciarsi tentare da pensieri eretici. Come fa il filosofo sudafricano David Benatar, che ha deciso di intitolare il suo nuovo libro “Meglio non essere mai nati”.

Una dichiarazione di guerra agli ottimisti? Un sonoro ceffone assestato in piena faccia a chi crede che la vita sia un dono sacro di cui essere grati ogni giorno al sorgere del sole? Un fatto è certo: David Benatar, direttore del Dipartimento di Filosofia all’Università di Città del Capo in Sudafrica, che ha insegnato anche alla UW-Madison ed al College of Charleston in South Carolina, non è un provocatore né uno di quegli intellettuali ansiosi di farsi notare a colpi di roboanti affermazioni. Pacato e sorridente, sempre attento a non usare toni di voce troppo perentori o aggressivi quando espone le sue idee, dotato di un’ironia tagliente che non valica mai i confini del buon gusto, ha portato all’edizione 2019 di Book Pride, ospite quest’anno della Fiera del Vapore a Milano, tutta la forza del suo pensiero eretico.

Le premesse del suo libro “Meglio non essere mai nati”, tradotto da Alberto Cristofori e pubblicato con grande sensibilità e coraggio da Carbonio Editore (pagg. 251, euro 16,50), sono chiarissime. “Ognuno di noi ha subìto un oltraggio nel momento stesso in cui è stato messo al mondo. E non si tratta di un oltraggio da poco, perché anche la qualità delle vite migliori è pessima – e notevolmente peggiore di quanto riconosca la maggior parte delle persone”, scrive David Benatar. Posto che, ormai, sia impossibile “prevenire la nostra esistenza”, e considerando che la soluzione del suicidio viene presa in considerazione del filosofo sudafricano soltanto in casi di malattia irreversibile, dovremmo almeno orientarci verso l’idea di “prevenire l’esistenza di potenziali persone future”.

Eretico sì, ma non illuso visionario, o sognatore oltre il limite ragionevole. David Benatar sa bene che né questo suo libro, e tantomeno le idee che professa con grande convinzione, avranno un impatto importante sulle nuove nascite di esseri umani. “La procreazione continuerà indisturbata – ammette il filosofo -, provocando una grande quantità di dolore”. Ma crede anche di essere nel giusto quando sostiene che “venire al mondo sia sempre un grande male”, pur riconoscendo che le sue argomentazioni verranno rispedite al mittente per l’esigenza di “difendere un’ortodossia”, per la difficoltà di accettare un punto di vista del tutto impopolare.

Punto di vista, peraltro, che ha avuto illustri precedessori. Basterebbe citare Gustave Flaubert e Giacomo Leopardi, Arthur Schopenhauer e Michel de Montaigne. Senza dimenticare che nella stessa Bibbia, Geremia e Giobbe finiscono per maledire la propria nascita.

“Ho elaborato le idee che stanno nel mio libro ‘Meglio non essere nati’, e in diversi miei lavori, senza tenere conto di quello che hanno scritto altri autori prima di me – spiega David Benatar, che non ama farsi fotografare e tantomeno raccontare i suoi fatti privati -. Le letture sono arrivate dopo. La simmetria tra la gioia del venire al mondo e il dolore di vivere mi è sembrata evidente molto presto. E credo sia impossibile capire l’essere stesso dell’uomo se non si parte da questa simmetria”.

Montaigne diceva che l’uomo dovrebbe piangere per chi nasce e non chi muore. È d’accordo?

“Non completamente. Perché l’uomo dovrebbe piangere per chi nasce, ma anche per chi muore. Entrambi questi momenti del vivere sono accompagnati dal dolore”.

Certo che pubblicando un libro così si è tirato addosso le critiche di tutti: credenti, atei, ottimisti e pessimisti…

“Mi rendo conto che il mio ragionamento è scomodo. Però quando si crede nella verità di quanto si sta affermando non ci si può fermare. Tanto meno quando si capisce che quelle idee risulteranno scomode. Per fortuna vivo in un Paese come il Sudafrica, dove non si finisce in prigione per le proprie opinioni. Quindi non avrei attenuanti se mi sottraessi al compito di esprimere le mie teorie senza paura”.

La definiscono un pessimista. Anzi, meglio, un filosofo cinico. Lei come si sente?

“Dipende che cosa intendiamo per pessimismo e ottimismo. Io, per esempio, sono sempre ottimista quando aspetto una persona con cui devo incontrarmi. Un po’ meno sul fatto che il mio volo aereo mi riporti a casa senza contrattempi. Se parliamo del fatto che la vita è assai più tragica di quanto siamo disposti ad ammettere, credo allora di essere un realista. Perché sto ancora aspettando che qualcuno mi dimostri i vantaggi che derivano dal fatto di essere messi al mondo”.

Gli ottimisti lo sono a priori?

“Il fatto è che, molto spesso, ci si dichiara pessimisti, oppure ottimisti, in maniera assai generica. Io credo che dovremmo assumere atteggiamenti diversi a seconda delle diverse situazioni. Bisogna ragionare con una certa freddezza su ogni singolo argomento che riguarda il nostro vivere, altrimenti si rimane nel vago”.

Considera il suicidio una scappatoia alla tragedia di essere nati?

“Se venire al mondo è un male questo non significa che, una volta nati, ci sia la necessità du uscire dalla realtà. Anzi, per il fatto di essere nati noi desideriamo con tutte le nostre forze di rimanere in vita. E la morte la vediamo come un ostacolo ai nostro sogni, ai progetti che facciamo ogni giorno. Ovviamente, con questo non voglio escludere i casi in cui il suicidio potrebbe essere una soluzione”.

In quali casi?

“Quando si presentano situazioni di sofferenza estrema. Oppure malattie che non concedono alcuna speranza di guarigione. Ma, anche in questi casi, il suicidio rimane una possibilità. Perché chi è in vita, per il fatto stesso di non voler arrendersi alla morte, prova a lottare e a sfruttare tutto il tempo che gli rimane”.

Quindi sarebbe meglio non mettere al mondo nuove vite?

“Proprio così. Perché ogni essere che apre gli occhi sulla realtà, nonostante tutto il dolore che gli è stato inflitto e che gli resta da vivere, continuerà a voler prolungare i suoi giorni il più a lungo possibile”.

Ci sono Paesi in cui non è consentito pensare a una morte volontaria assistita. Le sembra giusto?

“Se uno Stato dichiara di tutelare i diritti del cittadino, allora dovrebbe prevedere anche la volontà di interrompere la propria vita. Questo, però, non significa accettare che chiunque possa chiedere di accedere a una morte assistita. Ad esempio, ci sono persone con problemi mentali che vanno protette, non certo assecondate. Vanno tenute a distanza dalle loro pulsioni di morte. Nel caso dei malati terminali, al contrario, credo sia sacrosanto rispettare il loro eventuale desiderio di interrompere la sofferenza”.

Ma è sempre un male venire al mondo?

“Potrei dare una doppia risposta. Uno è l’argomento filantropico: chi accetta questa idea, non desidera la nascita di altre persone. Perché non vuole che anche loro soffrano ciò che molti altri hanno già provato. Ma c’è anche l’argomento misantropico, secondo cui non solo chi viene al mondo soffrirà, ma lui stesso produrrà sofferenza per altri. Pensiamo a chi viene molestato, a chi perseguita quelli che non la pensano come lui, ai violenti e agli assassini. Significa che noi facciamo danno sempre. Anche se cerchiamo di spendere il tempo che ci viene concesso nel modo meno invasivo possibile”.

Oggi si tende a fuggire dal dolore, a mascherarlo?

“L’anestesia è stata inventata da poco. Prima non c’era la possibilità di coprire, di mascherare il dolore. Quindi, chi metteva al mondo un figlio sapeva bene che a qualunque tipo di intervento medico avesse dovuto sottoporsi, la sofferenza fisica sarebbe stata immane”

Molti hanno un cane o un gatto in casa, ma continuano a mettersi la bistecca nel piatto. Perché?

“C’è una differenza profonda nell’atteggiamento degli umani verso i propri simili e verso gli animali. Perché noi adoriamo i nostri figli, ma non ci sogneremmo mai di mangiarli. Però discutere di questi argomenti aiuta a comprendere meglio il mio pensiero. Per esempio, io credo che noi amiamo cani e gatti, però siamo convinti che sia necessario impedire la loro riproduzione in maniera abnorme. Sappiamo, infatti, che un numero eccessivo comporterebbe seri problemi. Ad esempio, chi di prenderebbe cura di loro? In più, molti continuano a mangiare carne nascondendosi dietro la giustificazione che se diventassimo tutti vegan, quella mucca o quella gallina non sarebbero mai nate”.

Una giustificazione di comodo?

“Mi sembra profondamente falsa. Se ti dicessero: tu non puoi avere figli, però faremo in modo di dartene uno che vivrà cinque anni, e poi lo uccideremo, saremmo ancora disposti a pensare che sia giusto farlo nascere? Credo proprio di no. E allora, perché accettiamo questo ragionamento per gli animali? Perché chiudiamo gli occhi davanti a luoghi spaventosi come gli allevamenti intensivi, i macelli?”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

[contact-form-7 404 "Not Found"]