Voci, voci, voci. È impossibile non sentirle, è difficile non provare a immaginarle mentre leggi un romanzo di Georges Simenon. Con “Marie la strabica”, il richiamo diventa ancora più forte. Perché è lo stesso geniale scrittore a disseminare il suo romanzo di indizi. Di suggerimenti. Di indicazioni a volte molto precise, che gli servono per definire meglio le due protagoniste. Per mettere a fuoco il ritratto di due ragazze della provincia francese. Una, Sylvie, bella, formosa, dotata di scarsissimo senso del pudore, è assai determinata a farsi largo a colpi di successi nella selva oscura della vita. L’altra, Marie, piccola, scialba, spaurita, deve sopportare l’imbarazzante stranezza di un occhio che, quando guarda gli altri, segue traiettorie tutte sue.
E allora, via via che scorrono le pagine, le voci cominciano a prendere forma. Perché è impossibile leggere “Marie la strabica”, tradotto da Laura Frausin Guarino per Adelphi (pagg. 181, euro 18) senza immaginare il tono vocale assai diverso che compone il brusio, il cicaleccio, il discutere a tratti anche con modi concitati, delle due protagoniste di questo romanzo scritto da Georges Simenon nell’agosto del 1951 a Lakeville, Connecticut. E pubblicato l’anno successivo quando lo scrittore, nato a Liegi e morto a Losanna nel 1989, aveva 48 anni. E un bel po’ di libri pubblicati, con e senza il commissario Maigret a fare gli onori di casa.
Che Georges Simenon fosse capace in poche settimane di mettere assieme un congegno narrativo di raffinata perfezione, non è più un segreto. Basterebbe ricordare qualcuno dei romanzi “senza Maigret” che Adelphi ha pubblicato nel corso degli anni: “Il borgomastro di Furnes”, “Hotel del Ritorno alla Natura”, “L’uomo che guardava passare i treni”, “Il viaggiatore del giorno dei morti”, “Le finestre di fronte”. Ma ogni volta che si prende tra le mani un altro libro di questo grande talento della letteratura, non si finisce mai di meravigliarsi di come sapesse trasformare storie all’apparenza assai fragili in un fuoco d’artificio di invenzioni.
Un grande storico della letteratura come Giuseppe Petronio, autore tra l’altra de “L’attività letteraria in Italia, dopo aver trascorso lunghe ore nelle aule dell’università di Trieste a spiegare il legame stretto di Dante Alighieri, e della sua Commedia, con l’Italia dei Comuni, la grandezza di Ludovico Ariosto nel costruire quel capolavoro di fantasia che è “L’Orlando furioso”, e dopo essersi soffermato a dialogare con gli studenti, ad assegnare loro gli argomenti per le tesi di laurea, a fine giornata ritornava nella sua casa con un grande sorriso stampato sulle labbra: “Perché so che questa sera – confidava – potrò leggere uno dei miei amati Simenon“.
“Marie la strabica” ruota, essenzialmente, attorno a due ragazze. Quando entrano in scena Sylvie e Marie hanno rispettivamente 17 e 18 anni. Si conoscono fin da bambine, hanno promesso di non perdersi mai di vista. Anzi, Sylvie ha fatto una proposta a Marie forse un po’ azzardata, però dettata dal cuore. E che descrive splendidamente il suo modo di leggere la vita: “Quando sarò ricca ti prenderò come cameriera, e ogni mattina mi pettinerai”.
Il Destino sembra avere già deciso il loro futuro. Anche se all’inizio del romanzo, entrambi lavorano nella modesta pensione Les Ondines come cameriere. Ma è subito chiaro, fin dalle primissime pagine, che Sylvie è fortemente motivata a mettere a frutto la sua bellezza. Perché ha capito bene che non ci sono animali più stupidi dei maschi umani. Basta promettere loro qualche piccolo piacere carnale, e farglielo anche assaggiare, per ottenere posti di lavoro, regali costosi, vacanze sontuose. Perfino appartamenti arredati all’ultima moda. E non sarà certo la timidezza di Marie, quel suo scrutarla con imbarazzo quando si spoglia senza pudore nella stanza che condividono, a fermarla.
La scalata al successo di Sylvie è folgorante. E anche se il primo amante che aggancia alla pensione Les Ondines riesce subito a procurarle un lavoro da impiegata, ma poi batte in ritirata non appena la moglie si accorge che quella ragazza assomiglia più a una procace mannequin che a una segretaria, la ragazza riuscirà, piano piano, a raffinare la sua tecnica di seduzione. Tanto da conquistare, a Parigi, il cuore e il cospicuo patrimonio di un uomo, Omer Besson, che ben presto dovrà salutare il mondo, fiaccato dalla malattia. Lasciando proprio a lei le sue debordanti ricchezze.
Delusa dallo sfacciato arrivismo dell’amica d’infanzia, Marie deciderà di farsi da parte. E non parteciperà a questa conquista a tappe forzate del benessere. Però continuerà a tenere d’occhio la vita di Sylvie. Attraverso gli articoli mondani dei giornali, ascoltando con attenzione tutti i pettegolezzi che si fanno sulla gente in vista. Fino a quando sarà la sua vecchia compagna di fantasticherie nella provincia francese a rimettersi in contatto con lei. Proponendole di ritornare a lavorare insieme, a vivere sotto lo stesso tetto. Come quando erano due povere ragazze in cerca di fortuna. Questa volta, però, ci sarà in ballo la possibilità di sistemarsi per sempre. Molto bene.
Marie, la scialba, la metodica, l’apparentemente mite, rivelerà solo allora la sua vera natura. Perché se è vero che Sylvie non ha mai saputo nascondere la sua sfrontatezza, lo smodato desiderio di successo e di ricchezza, ma è sempre stata onesta nella sua visibilissima ansia di apparire e di piacere, l’amica rivelerà un’anima contorta e torbida. Un desiderio di dominio mascherato dietro il paravento della melliflua disponibilità a farsi comandare.
E, come in tanti romanzi di Georges Simenon, “Marie la strabica”, l’elemento in apparenza più fragile, la bruttina che dovrà rinunciare all’unico uomo che sembrava interessarsi a lei, dopo che Sylvie stessa lo ha concupito e traviato, si farà protagonista di un finale capace di mettere addosso i brividi. Anche se lo scrittore non forza mai la mano, non si aggrappa a effetti speciali, a roboanti colpi di scena, per portare la storia verso un inaspettato ribaltamento di ruoli. Perché sarà una una livida normalità, un logico rimescolarsi di carte, a tracciare la nuova rotta.
E, allora, ecco che immaginare le voci diventa importante. Anzi, fondamentale. Perché Marie usa sempre un tono calmo, monotono, vagamente lamentoso. Come “quello di certe donne segnate dalla malasorte”, dice Georges Simenon. Mentre Sylvie usa il proprio corpo, e di conseguenza la voce, in maniera tracotante, sempre un po’ sopra le righe. Incapace di tenere nascosto quello che pensa, quello che fa.
Ma verrà il tempo in cui le parti si rovesceranno. E, allora, sarà Sylvie a mormorare, a muovere le labbra sforzandosi di far uscire le parole. Mentre Marie non perderà mai quell’inflessione calma, perfetta per recitare le preghiere a costruirsi attorno un’aria di bontà, di affidabilità.
Al momento giusto, la tranquilla voce di Marie prenderà su di sé i colori di un uragano in arrivo. Di una di quelle tempeste che provocano disastri senza mai annunciarsi. E sarà lei, allora, a mormorare, con gioia segreta a Sylvie: “Ammettilo che mi odi!”. Perché si può aspettare tutta la vita che arrivi quell’istante. E goderselo fino in fondo.
<Alessandro Mezzena Lona