• 08/03/2020

Il Ligabue di Diritti: “Volevo nascondermi” da te, schifoso mondo

Il Ligabue di Diritti: “Volevo nascondermi” da te, schifoso mondo

Il Ligabue di Diritti: “Volevo nascondermi” da te, schifoso mondo 1024 682 alemezlo
Può bastare una giacca per nascondersi dal mondo. Un pezzo d’abito nero tirato fin sulla testa, da cui lasciare che soltanto un occhio lanci sguardi inquieti su quello che sta attorno. Perché la realtà è lì, tutto attorno, pronta a giudicarti. A sbatterti in faccia il fatto che tu non sei come gli altri. Sei matto. Spaventi chi ti incontra mentre lanci grida gutturali, o borbotti qualcosa di incomprensibile. Rifiuti di piegarti alle regole che ti hanno insegnato. E non sei disposto a credere che la tua irrequietezza sia alimentata da un diavolo che si è impossessato di te. Da una presenza oscura, maligna, perversa, che nulla ha da spartire con la bontà, la luminosità, la perfezione dell’essere umano.

È lì, in quella prima scena del film “Volevo nascondermi” che Giorgio Diritti riassume l’intera vita di Antonio Ligabue. Ed è sempre lì, in quel celarsi dall’occhio giudicante del mondo, che sta tutto il fascino di una storia, umanamente drammatica, ma artisticamente straordinaria, tanto da continuare a suggestionare registi e scrittori. Basterebbe infatti ricordare, per citarne soltanto qualcuno, che a raccontare la vita disgraziata e creativa del pittore nato a Zurigo nel 1899, e morto a Gualtieri nel 1965, ci avevano già provato i documentaristi Pier Paolo Ruggerini e Raffaele Andreassi. E, poi, Salvatore Nocita, che nel 1977 era riuscito a indovinare, e poi a scommettere sulla straordinaria presenza scenica del trentenne Flavio Bucci, scomparso poco più di due settimane orsono. Ma non va dimenticata nemmeno la recentissima biografia romanzata di Carlo Vulpio “Il genio infelice”, pubblicata l’anno scorso dalla casa editrice Chiarelettere.

Ma allora, perché un regista come Giorgio Diritti, battezzato dalle collaborazioni con Federico Fellini e Ermanno Olmi, osannato già al film d’esordio “Il vento fa il suo giro”, e poi premiato al Festival di Roma per “L’uomo che verrà”, ha provato il desiderio di confrontarsi con un personaggio così estremo, eppure consacrato e ormai santificato dai soloni della pittura e della cultura, come Antonio Ligabue? Il regista dice di avere pensato intensamente all’artista mentre girava un altro film. Per la sua determinazione e per la sofferenza che ha marchiato tutta la sua esistenza. Guardando “Volevo nascondermi” vien da pensare che a portare il regista verso il pittore sia stata anche la convinzione che una storia del genere potrebbe ripetersi esattamente oggi come è avvenuta ieri. Perché non abbiamo ancora imparato a fare posto all’altro, nel nostro confortevole spazio sociale. E non siamo disposto a tollerare la presenza degli strani, quelli veri, di chi ha uno stile di vita diverso del nostro. Nemmeno dopo la rivoluzione portata dentro i manicomi, ma anche fuori da quell’angusto perimetro, da Franco Basaglia.

Antonio Ligabue, visto da Giorgio Diritti, è un Elio Germano (tre volte premiato con il David di Donatello pere “Mio fratello è figlio unico”, “La nostra vita” e “Il giovane favoloso”, miglior attore al Festival di Cannes 2010 sempre per “La nostra vita”, miglior attore a Berlino 2020 proprio per questo “Volevo nascondermi”) ingrugnito e insofferente, sconciato dalla malattia, tenero e violento, capace di sentire l’anima degli animali e sempre in difficoltà nel farsi capire dai propri simili.

Nello scorrere del film, Antonio Ligabue è prima un bambino (interpretato da Leonardo Carrozzo), poi un adolescente (Oliver Ewy) e un uomo, a cui la vita non risparmia niente. Non l’amore a pagamento dei genitori adottivi Johannes Valentin Göbel e Elise Hasnselmann, che l’avevano preso un affido soprattutto peer un tornaconto economico. Non l’evanescenza della vera madre Maria Elisabetta Costa, morta tragicamente per intossicazione alimentare, né l’ambigua lontananza del padre Bonfiglio Laccabue, che il pittore sospettò essere il vero responsabile (leggi: assassino) della tragedia materna. E nemmeno gli evidenti guai fisici, provocati dal rachitismo e dalla struma o gozzo: cioè l’aumento di volume della tiroide in maniera del tutto abnorme.

Scriveva Alda Merini, la grande poeta milanese che ha attraversato i territori della follia ed è stata sottoposta a un numero impressionante di elettroshock: “Ho cominciato a piangere per gioco e poi ho creduto che fosse il mio destino”. Anche al divenire umano di Antonio Ligabue non sono state risparmiate le tappe di una via crucis del tutto uguale a quella di tanti artisti irrequieti, ribelli, incapaci di indossare la maschera giusta per apparire del tutto uguali agli altri. Per questo, il suo malstare psicologico e fisico è stato scambiato per possessione diabolica, per malignità congenita, per idiozia manifesta. Strazianti sono i confronti, in “Volevo nascondermi”, con i medici e gli educatori. Incapaci di una parola di comprensione, di un gesto che sappia rompere il rigido protocollo della professione. Impietoso, poi, il confronto con i propri coetanei, aizzati alla malvagità contro il diverso, all’emarginazione del folle per paura di guardare dentro se stessi. E di capire che potrebbe capitare a tutti, come scriveva il grande poeta friulano di Andreis Federico Tavan, “nasce t’un pegnatón / tra žovatz e žufignes / de stries cencja prozes / e al dolour grant de ‘na mare. / Me soi cjatàt a passa / da chȇ bandes” (“nascere in un pentolone / fra rospi e intrugli / di streghe senza processo / e il dolore grande di una madre. / Mi sono trovato a passare / da quelle parti).

Tony Ligabue che imita l’ancheggiare delle oche, e riesce a percepire i loro pensieri. Ma, per gli altri, è soltanto un povero scemo. Tony Ligabue che sbava come un cane, che ruggisce come una tigre, che urla alle stelle quando muore la bambina a cui si diverte a regalare preziose bambole-scultura. Tony Ligabue che vive in una baracca nel bosco vicino a Gualtieri, il paese d’origine del padre nella Bassa reggiana, che ha fatto più volte i conti con violente invasioni d’acqua del Po. Tony Ligabue che soffre il freddo, la fame, la solitudine. E anche la malvagità dei pochi che gli si avvicinano, lo tormentano, lo considerano poco più di una di quelle bestie esibite negli zoo come fossero oggetti da schernire appena possibile. E poi tutto cambia, grazie all’incontro con Marino Mazzacurati, lo scultore che lo aiuta a capire quanto l’arte possa essere la sua via per parlare a quel mondo sordo e crudele. I primi successi, le fiere di paese con i suoi quadri esposti in un semplice tendone, l’arrivo dei critici da Roma e l’invito a fare una grande mostra nella capitale.

La forza di “Volevo nascondermi” sta tutta qui: nel saper raccontare un personaggio, che è ormai leggenda, senza mai eccedere nei toni. Sbozzando scene, accennando dialoghi, alludendo a episodi della vita di Antonio Ligabue. Tratteggiando con grande forza, e altrettanta delicatezza e misura, i personaggi dei buoni e quelli dei cattivi. Facendo respirare l’atmosfera claustrofobica di una piccolo mondo provinciale del tutto impreparato ad accogliere un grande visionario come il pittore naïf.

E poi, Giorgio Diritti, di tanto in tanto, si concede il privilegio di alzare lo sguardo sul paesaggio. Di scrutare oltre il muro delle case, oltre il confine del paese. E allora, la campagna diventa una visione di Vincent Van Gogh. La notte ha il fascino ambiguo de “L’impero delle luci” di René Magritte. I volti hanno la scavata semplicità, la ruvida espressività dell’Autoritratto dello stesso Ligabue. Da applausi, poi, la scelta fatta dal regista di puntare su un cast di sconosciuti, tolto il bravissimo Elio Germano. Un attore che non teme il confronto con gli strapagati professionisti di Hollywood. Tra loro spicca la luminosa Orietta Notari, che veste i panni della mamma gentile dello scultore Mazzacurati.

Dal film di Giorgio Diritti non esce il ritratto di un Antonio Ligabue pronto per gli altari dell’arte. Anzi, il regista non tace il bulimico desiderio  provato dal pittore di spendere, soprattutto nell’acquisto di splendide moto, tutti i soldi incassati dai quadri venduti. Non nasconde la sua scarsa considerazione, anzi l’infastidito sprezzo per chi non lo ha mai considerato un artista davvero innovativo e visionario. Non prova a minimizzare la sua attrazione per le bambine, la difficoltà ad avere un rapporto adulto con le donne. Non trasforma, insomma, il Tony Ligabue che distrugge i suoi stessi dipinti, se qualcuno non li capisce in maniera adeguata, in un santo. No, il regista di “Volevo nascondermi” preferisce tratteggiare la sofferenza e il successo, il dolore e la gioia, l’abisso della solitudine e l’illusione di esserne uscito, con la stessa, efficace misura. Scontentando, così, tutti quelli che avrebbero preferito ammirare sullo schermo un personaggio più definito, manicheo, retorico. Un caso umano di cui innamorarsi per due ore. Per poi ritornare ai propri quotidiani pregiudizi verso l’altro con animo perfettamente sereno.

<Alessandro Mezzena Lona<

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