• 27/04/2021

Mauro Covacich, la via apollinea per sfidare se stessi correndo

Mauro Covacich, la via apollinea per sfidare se stessi correndo

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Ad ascoltare Carl Gustav Jung, nel disagio contemporaneo di gestire la nostra quotidianità potremmo vedere un nuovo manifestarsi degli antichi dei cacciati dal cielo. Un ritrovare spazio dentro di noi, e non più in un Olimpo immaginario, di quegli esseri sovraterreni che abbiamo rimosso troppo in fretta. Del resto, anche lo psicanalista americano James Hillman faceva eco allo psichiatra svizzero di Kesswil sostenendo, ne “La vana fuga dagli dei” e nel “Saggio su Pan”, che allontanare dal nostro orizzonte trascendente quelle presenze dai forti connotati simbolici ha significato caricare sulle nostre spalle tutto il peso di ciò che Giove, Marte, Mercurio, Atena, Apollo, Dioniso rappresentavano. Pulsioni spesso estreme proiettate molto lontano da noi, insomma, che hanno finito per ricadere in noi diventando mania, fissazione, tormento, disagio e malattia del nostro subconscio.

E se la rabbia, la violenza, la voglia di distruzione hanno messo radici profonde nella società degli uomini da molti secoli, al tempo stesso anche il desiderio di piaceri sfrenati, di trasgressione, il richiamo di Pan e Dioniso si sono manifestati in noi in multiformi varianti. Tanto da spingere sempre più persone a cercare una via per imbrigliare la voglia di eccessi. Una disciplina, insomma, che metta d’accordo le esigenze del corpo con quelle della mente. Un metodo che smetta di negare la superiorità dello spirito sulla carne. Ma che, al tempo stesso, non si lasci dominare dallo strapotere della fisicità a danno dell’esigenza di trovare un’equilibrio che passa per i sentieri del pensare.

Non sembra strano, adesso, che uno scrittore come Mauro Covacich abbia trovato nel richiamo della corsa, nel desiderio di spingere il proprio corpo fino al confine delle possibilità inesplorate di resistenza, nella convinzione che sia pur sempre la mente a spostare un po’ più in là il limite di sopportazione della fatica, uno dei temi centrali della sua produzione letteraria e artistica. Chi conosce lo scrittore triestino non avrà scordato uno dei suoi romanzi più belli, “A perdifiato”, ingiustamente privato di un meritatissimo Premio Campiello nel 2003, che proprio attorno alla corsa costruiva la sua storia. E ricorderà di certo una delle installazioni più stranianti, quella che lo stesso autore definiva “un video romanzo”, intitolata “L’umiliazione delle stelle”. Sorta di gioco di specchi tra l’autore stesso e il suo personaggio di carta Dario Rensich, che lo ha portato a correre i 42 chilometri e 195 metri di una maratona su un tapis roulant sotto gli occhi di una telecamera fissa.

Adesso, Mauro Covacich ritorna a ragionare “Sulla corsa”. In un libro nuovo, pubblicato da La nave di Teseo (pagg. 159, euro 15), che sta al confine tra un saggio narrativo, un viaggio dietro le quinte della produzione letteraria dello scrittore triestino e un raffinato esempio di disvelamento autobiografico. Il tutto condito dalla capacità di fare della scrittura un osservatorio privilegiato sulla vita, le sue contraddizioni. Il suo sapersi mascherare e spogliare dei meccanismi della finzione con la stessa limpida ambiguità.

La corsa, per Mauro Covacich, è non solo un amore capace di coinvolgere tutti i sensi. Connettendo all’istante i piedi, i polpacci e il cervello. Ma è anche una rigida disciplina interiore che sta in rapporto stretto con la scrittura. Perché nel tambureggiare dei passi sull’asfalto, sullo sterrato, si può percepire il risuonare della parola, il ritmo scandito dal divenire del racconto. “Per il praticante assiduo l’andatura diventa presto una metrica interiore. Non è certo un caso se per greci e latini l’unità di misura del verso è il piede”, chiarisce lo scrittore. E subito dopo si affretta a dire che sembra conseguente se la corsa compare in una scena tutt’altro che marginale del poema omerico “Iliade”. E qui torniamo a Jung e Hillman, al manifestarsi degli antichi dei nel nostro affannarci per trovare un centro di gravità non transitorio in questo confuso terzo millennio.

Correre, insomma, non è più soltanto un trascinare il proprio evidente sovrappeso, la postura formato poltrona-scrivania-letto, nelle strade delle città, lungo i viali delle periferie, nei solitari sentieri di campagna.

No, correre diventa un saper scegliere tra gli eccessi di Dioniso e il calcolo ragionato di Apollo. Perché quando ciabattare per pochi chilometri non basterà più, e prepotente arriverà il desiderio di sfidare se stessi sulla distanza mostruosa di una maratona, sarà necessario evitare accuratamente le sirene del lato dionisiaco. Quelle vocine interiori pronte a suggerire una velocità smodata, che porterà il corridore a scoppiare. Per adottare, piuttosto, una filosofia del tutto apollinea che consentirà “di restare lucidi dal primo all’ultimo metro, gestire la follia del corpo, tenerla sempre a un soffio dal suo impazzimento definitivo”.

Correre, per Mauro Covacich, significa impossessarsi della metis, che “qui non va certo intesa come astuzia, bensì come l’arte di dosare al meglio le energie”. Perché il corridore è un samurai disarmato che fa di se stesso il proprio avversario. È un piccolo grande uomo che, macinando chilometri spesso in perfetta solitudine, trasmette al proprio corpo i principi della disciplina di un pensatore stoico. In fondo, scrive l’autore di “Prima di sparire” e “La città interiore”, ogni runner si abitua a forzare da solo i limiti del corpo, quelli della mente. Anche se sa bene che le Olimpiadi le vedrà soltanto sullo schermo della tivù nel salotto di casa. E che nelle gare a cui si iscriverà arriverà lontanissimo dai primi.

Molti scrittori hanno raccontato la passione per la corsa. Uno per tutti: il giapponese Murakami Haruki nel suo “L’arte di correre”, pubblicato in Italia da Einaudi. Ma, forse, quello che è sfuggito all’autore di “Norwegian wood”, “Dance dance dance”, “Kafka sulla spiaggia”, è proprio l’aspetto zen che fa muovere i piedi ,uno dietro all’altro, per chilometri. Quella capacità dell’ascolto “del fuori attraverso il dentro” che Mauro Covacich mette in evidenza con grande lucidità. Perché sfidare i propri limiti significa soprattutto sapere ascoltare il corpo che pensa mentre sottopone il cuore, i polmoni, ogni singola fibra, ogni muscolo più nascosto, a una sfida che la logica gli suggerirebbe di evitare.

“Sulla corsa” assume le sembianze, sotto gli occhi del lettore, di una serie di incontri con uomini straordinari: dall’etiope Haile Gebreselassie, diventato leggenda nel mezzofondo e nelle maratone in giro per il mondo, al maestro Andrea che ha portato Mauro Covacich a innamorarsi perdutamente della corsa. Ma è anche un viaggio alla scoperta di quanto lo sfidare se stessi sulla strada sia un modo per rompere gli schemi, per esprimere dissenso al ruolo di persone tutto scrivania-poltrona.letto a cui ci siamo rassegnati. Un dare voce a un timido teppismo intraurbano e extraurbano di chi adotta un ritmo più veloce non per inchinarsi a dettami folli della produttività, ma per combattere contro se stesso. Ben sapendo che, un giorno, sarà il cuore a dettare il tempo giusto per fermarsi. Senza mai dimenticare che, all’ombra del nostro io, c’è una metrica interiore pronta a scandire il ritmo giusto ogni volta che un piede, seguito presto dall’altro, allungherà la falcata.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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