• 30/07/2021

Carmen Pellegrino: “Le mie storie d’ombra cercano la luce”

Carmen Pellegrino: “Le mie storie d’ombra cercano la luce”

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Esplorare il lato oscuro della realtà può fare paura. Confrontarsi con le ombre che abitano i luoghi dimenticati, e lasciare che entrino in risonanza con il proprio accidentato vissuto, può generare viaggi sospesi tra la realtà e la fantasia. Come quelli che abitano i romanzi di Carmen Pellegrino. Una scrittrice così originale e appartata, nel panorama della letteratura italiana contemporanea, da conquistare con le storie che racconta per ben due volte la Giuria dei Letterati del Premio Campiello. Nel 2015, è stato il suo libro d’esordio “Cade la terra” a conquistare un posto nella cinquina dei finalisti. Opera prima che ha vinto anche il Rapallo Carige. Adesso, la sfida si ripete con “La felicità degli altri”.

Anche questa volta, Carmen Pellegrino dovrà confrontarsi con scrittori e libri di ottimo livello, nella serata finale all’Arsenale di Venezia sabato 4 Settembre. A contendere la vittoria al suo romanzo “La felicità degli altri” (La nave di Teseo, pagg. 239, euro 18), assegnata da una giuria popolare formata da 300 lettori nella 59.a edizione del Premio Campiello, saranno infatti Andrea Bajani con “Il libro della case” (Feltrinelli), Giulia Caminito con “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani), Paolo Malaguti con “Se l’acqua ride” (Einaudi) e Paolo Nori con “Sanguina ancora” (Mondadori).

C’è una donna che ha imparato a parlare con le ombre, al centro de “La felicità degli altri”. Cloe ha lasciato alle proprie spalle un’adolescenza ingombra di macerie. Uno zoppicante ingresso nel mondo in cui si illudeva ancora di riuscire a farsi amare da chi l’aveva proiettata nei meandri tortuosi della vita. Poi, solo nella Casa dei Timidi, riservata a ragazzi in rotta di collisione con la fasulla protezione che si illudevano di ottenere dalla propria famiglia, ha ritrovare il coraggio di provare a guardare la realtà negli occhi. Anche grazie all’aiuto di due bizzarre figure: il Generale e Madame. Esattamente le persone che le servivano, quando era arrivata lì a dieci anni, per non smarrire definitivamente il proprio orizzonte.

Ma sarà un’altra presenza, quella del misterioso Professor T., a condurre Cloe sulla strada della riscoperta di se stessa. Lui, che è docente di Estetica dell’ombra, intercetterà il suo desiderio di essere riconosciuta nello sguardo degli altri. Capirà profondamente la necessità di liberare dalle catene del dolore un corpo che ha reclamato carezze e abbracci come fossero pezzi di pane. Una mente che ha dovuto fare a meno della speranza, perché sembrava che attorno a lei potessero fiorire soltanto rovine.

Definita al momento del suo debutto con “Cade la terra” la scrittrice “abbandonologa”, per quella sensibilità narrativa di ridare voce ai luoghi abitati soltanto dai ricordi e dalle ombre di chi non c’è più, Carmen Pellegrino con “La felicità degli altri”, pubblicato a quattro anni di distanza dal secondo romanzo “Se mi tornassi questa sera accanto”, ha dato voce alla drammatica forza dell’assenza. Di amore, di empatia, di vicinanza. Creando un personaggio ferito e indomito come Cloe e una figura maschile capace di riannodare i fili della vita in chi pensa che, dentro di sé, passato e presente formino soltanto un groviglio inestricabile.

Figure, quelle di Cloe e del Professor T., che dialogano a distanza con Estella di “Cade la terra”, la donna che teneva in vita con disperata puntualità le anime di un borgo consegnato all’oblio come Alento. Ma anche con Giosuè Pindari, il padre al centro del secondo romanzo che prende titolo da uno splendido verso di Alfonso Gatto: “Se mi tornassi questa sera accanto”. Un uomo che vive nel ricordo della figlia Lulù. E deve compiere, attraverso la scrittura di lettere che non arriveranno mai alla destinataria, un viaggio chiarificatore nei troppi sbagli che ha compiuto.

“Con il mio terzo romanzo ho voluto riannodare i fili con le storie cher già raccontavo in ‘Cade la terra’ – spiega Carmen Pellegrino, nata a Polla e cresciuta a Postiglione degli Alburni nel Cilento -. Lì, se vogliamo, la prospettiva della narrazione era più larga. C’era un’attenzione maggiore per i problema dei luoghi e delle genti del Meridione d’Italia. E, poi, svettava la figura dell’anarchico disilluso, che credeva nel sol dell’avvenire ma aveva dovuto mettere da parte le sue illusioni. I miei occhi di scrittrice, insomma, si puntavano su posti e personaggi desolati. Se devo essere sincera, non era nella mia volontà ritornare su questi temi con ‘La felicità degli altri’. Non avevo immaginato così il libro. Però, evidentemente, dovevo completare questa tessitura iniziata nella mia opera di debutto”.

Qualcuno ha già parlato di Trilogia dell’abbandono…

“Sì, qualche critico vede una sorta di filo narrativo che lega i miei tre romanzi. Ne  ‘La felicità degli altri’ a vivere un’esistenza buia sono i bambini abbandonati. Che si ritrovano poi, anche da adulti, a dover gestire la loro solitudine. Il fatto di non aver avuto alla spalle una famiglia capace di dargli amore. C’è poi, se vogliamo, anche il tema dell’invisibilità”.

Invisibilità non solo dei corpi negati, ma anche dei personaggi?

“Il Professor T., ad esempio, prende spunto da un episodio reale. Raccontato dalle pagine di cronaca del ‘Corriere Veneto’, quando è stato ritrovato il corpo di un docente veneziano mummificato e nessuno si era accorto della sua morte. Non a caso dedico il romanzo agli ammutoliti abitanti del buio, piccoli o adulti che siano. Perché non c’è età che metta al riparo se non si viene visti né ascoltati, se non ci si sente almeno ogni tanto pensati”.

Cloe deve imparare a gestire le ombre, visto che è circondata da fantasmi?

“La sua casa è abitata da fantasmi. Dai quali lei cercherà, in una parte della sua vita, di fuggire. Anche perché quando incontrerà a Venezia il Professor T., imparerà a cambiare il suo rapporto con queste presenze. Inizierà un dialogo con loro. Ben sapendo che non è possibile sfuggire. Come non si può evitare di fare i conti con il passato. Non si può evitare il confronto con le ferite che ancora sanguinano dentro di noi. Sono loro a costituire quel luogo oscuro che è parte di noi”.

Non le fa paura esplorare l’ombra, i lati oscuri dell’essere?

“No, sono convinta che non si possa ricacciare l’ombra nel profondo di noi. Anzi, bisogna trovare il coraggio di illuminarla. I nostri luoghi oscuri, le contraddizioni, non sono mai del tutto negative. Fanno parte di noi. Sono materia organica del nostro essere. Per questo mi è piaciuto immaginare che il Professor T. sia docente di Estetica dell’ombra”.

Questo timore dell’oscurità connota soprattutto la civiltà occidentale?

“È senz’altro così. Nella cultura, nella filosofia orientale questa paura non c’è. Mi viene in mente il ‘Libro d’ombra’ di Tanizaki Junichiro dove il lettore entra in una sorta di intimità con il lato oscuro. Del resto, il terrore del buio si imaterializza nelle nostre città sempre più illuminate a giorni. Per ricacciare indietro le ombre”.

I libri che elenca alla fine dei suoi romanzi sono come spiriti guida di carta?

“È un po’ uno svelare le coordinate della scrittrice. Anche per coinvolgere di più il lettore. Per vedere se si incuriosisce e va a cercare altri libri, oltre a quello che sta leggendo. Magari, poi, ampliando più di me il proprio orizzonte. Queste note bibliografiche, però, nulla tolgono alla forza immaginativa del romanzo. Nei miei libri, infatti, la parte di finzione è sempre preponderante rispetto a quelli che possono essere i miei percorsi di studio e approfondimento. Faccio esattamente ciò che diceva Vladimir Nabokov: osservo la realtà e poi la metto tra virgolette”.

Prima di ogni suo romanzo c’è un lungo percorso di letture, di studio?

“Sempre, e forse è per questo che non ho scritto tanti libri. C’è studio, lettura di materiali, riflessione. La messa in crisi della mia stessa capacità di scrittrice. Il confronto con i limiti personali. Anche perché, quasi sempre, l’idea che ho in testa mi sembra irraggiungibile. Ti senti inadeguata. E, allora, continua la ricerca, la preparazione. Per avvicinarsi, almeno in parte, a quell’idea”.

Uno scrittore non finisce mai di leggere?

“Mai. Come si fa, ad esempio, a concentrarsi sulla letteratura americana non rendendosi conto che è stata ed è in dialogo continuo con quella russa, europea? E i francesi che cosa sarebbero se venissero sradicati dal confronto con gli altri grandi narratori del mondo?”.

Nascere a Polla, crescere a Postiglione degli Alburni, ha influenzato il suo immaginario?

“Probabilmente sì. Anche se il mio immaginario, poi, si è formato nella distanza. Perché me ne sono andata molto presto dal Cilento. Avevo 18 anni. In seguito, però, ho recuperato figure che aveva incontrato, storie che avevo sentito raccontare. Parlavano di una delle zone del Sud più misere, dove anche i più coraggiosi, se volevano creare una piccola impresa privata, andavano incontro a difficoltà enormi. Lo racconto anche in ‘Cade la terra’. Non sempre nel Meridione manca l’iniziativa, spesso sono le condizioni stesse che ti impediscono di realizzare i tuoi desideri”.

Una terra che non faceva certo regali?

“I miei nonni erano contadini. Si ingobbivano a forza di stare chini nello sforzo di coltivare i campi. Che poi, era davvero come si dice, cercare di cavare sangue dalle rape. Ecco, il mio sguardo di attenzione per le storie dei luoghi abbandonati, e delle persone, si è affinato di sicuro lì”.

Due volte in finale al Campiello in sei anni. Che emozioni prova?

“Non penso alla vittoria. Potevo sperarci, forse, la prima volta. Perché ero l’esordiente entrata nella cinquina del Premio Campiello 2015 e sognavo l’effetto sorpresa. Altre volte avevano scelto proprio il romanzo di un debuttante, anche forse per dare un segnale di rinnovamento. Questa volta la vivo con grande serenità. Per me è un bellissimo riconoscimento per il lavoro di scrittura che ho fatto. I miei libri non sono quelli che scalano immediatamente le classifiche. Bisogna amarli, volerli leggere”.

Però tanti lettori la amano.

“Sì, ho un nucleo di lettori che mi segue dall’inizio. Si riconoscono nelle mie storie, le apprezzano. Entrare in finale per due volte al Premio Campiello è una grande gioia proprio perché, a volte, mi chiedo: ma perché scrivi sempre libri che ti fanno fare così tanta fatica? A volte è giusto anche porsi delle domande. Mettersi in discussione. Poi, però, mi rispondo: sono davvero queste le storie che voglio scrivere”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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