“Voglio che la scrittura mostri come sono complicate le cose e sorprendenti. Viglio emozionare i lettori, ma senza trucchi. Voglio che pensino sì, quella è la vita. Perché è la reazione che ho io di fronte alla scrittura che ammiro di più”. Sono parole di Alice Munro, la scrittrice canadese che ha vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 2013. E che viene considerata il punto di riferimento vivente per qualunque scrittore voglia confrontarsi con il racconto. Con quella forma di espressione narrativa considerata la più alta, la più difficile, anche se poi, alla resa dei conti, rimane sempre un po’ oscurata dalla seducente, fluviale architettura del romanzo.
Facile ripetersi, nella memoria, le parole di Alice Munro mentre si legge “Via da qui” pubblicata da minimum fax (pagg. 141, euro 16), la raccolta di cinque racconti che porta la firma di Alessandra Sarchi. Nata a Reggio Emilia, ma con casa a Bologna, la scrittrice ha saputo affascinare la critica e i lettori fin dal suo esordio con il romanzo “Violazione”, premiato dal Volponi Opera Prima nel 2012. Confermando, poi, il suo talento con “La notte ha la mia voce”, Premio Mondello, finalista al Campiello e al Bergamo nel 2017, e con “Il dono di Antonia”.
Alice Munro, si diceva. Sì, perché i racconti di Alessandra Sarchi rispondono proprio ai tre “voglio” della scrittrice canadese. Fanno pensare subito alla vita, a quanto gli avvenimenti che ne segnano il suo divenire siano a volte complicati e a volte sorprendenti. Emozionano il lettore per il loro stesso essere un riflesso della realtà, senza dover aggrapparsi a trucchi o a strani effetti per provocare lo smarrimento di chi si immerge tra le pagine. Soprattutto, fanno pensare che la scrittura, la capacità di raccontare, di costruire storie, sia una delle più sottili, affascinanti, geniali possibilità che ha l’uomo per riflettere se stesso nelle vicende degli altri. Anche soltanto immaginandoli.
“Via da qui” corre su cinque binari diversi, che alla fine compongono un grande, omogeneo ritratto del vivere. “La tana” porta sotto le luci della pagina Monica, una giovane donna che si trova a dover fare i conti con la morte della propria compagna. E non è tanto lo strazio dell’assenza improvvisa, il pensiero dell’incidente che ha fermato per sempre il tempo di Evelyn, il ricordo del loro primo incontro, della decisione di condividere un appartamento i cui infissi dovevano essere riverniciati a intervalli regolari, a innescare una nostalgia sorda e potente, un rimpianto che non ha parole. Perché il vero senso di solitudine e di impotenza prenderà corpo quando saranno i genitori della ragazza a dover decidere sull’espianto e la donazione dei suoi organi. Spalancando un abisso di solitudine davanti a lei: “Vorrebbe un vuoto perfetto, dove accucciarsi con il proprio dolore. Mangia le proprie lacrime, se ne nutre per ore”.
Ne “L’argine”, la crisi d’identità di Ines viene raccontata da un doppio registro narrativo. Se da una parte, è la stessa voce narrante a mettere a fuoco il ritorno della donna in Italia dagli Stati Uniti, la casa della sorella Rossella con i suoi ritmi e riti, i luoghi dell’infanzia, il confronto con i nipoti, il dover spiegare le tappe del fallimento del suo matrimonio, dall’altra tutto quel teatrino di parole dette e non dette, di desideri di ritornare a vivere in una casa sull’argine del Po, passa attraverso la lente d’ingrandimento delle pagine di un diario. Quello di Giorgia che vorrebbe “raccontare tutta la mia vita”. Ma, su consiglio della sua maestra, “parte dalle cose che succedono giorno per giorno, dalla descrizione delle persone che ci circondano e dei luoghi”.
Nel “Palazzo della principessa” l’illusione transitoria della ricchezza, e la realtà di un’emarginazione sociale vissuta in un sottotetto occupato senza permesso, mette Melissa e Filippo faccia a faccia con una decisione da prendere urgentemente. Lei, dopo averlo annunciato tante volte per vedere la reazione di lui, ha scoperto di essere per davvero incinta. In più, in tutto lo stabile sono iniziati massicci lavori di ristrutturazione. Saranno i sogni a vincere o l’incalzante avanzare della realtà?
Ancora il sogno americano si presenta nella trama di “Cherry Street”. Un’altra donna, in California, è pronta a confrontarsi con il fallimento delle proprie illusioni: Giovanni, ormai, è determinato ad andarsene, anche se “non sono cose che si decidono in un pomeriggio”. Sarà nel lasciarsi portare dalla memoria dell’unione complicata con il suo uomo che Annamaria, insieme all’amica Monty, metterà a fuoco il motivo vero dell’assillante richiesta di soldi da parte del compagno, dei suoi rimproveri, della strana interferenza di Jessica, una ragazza tutt’altro che avvenente, nel loro già traballante rapporto. Mentre il ricordo drammatico della Janice di “Rabbit, run – Corri, Coniglio”, il romanzo di John Updike pubblicato nel 1960, si insinua nella storia.
Un racconto che può far riandare la memoria la film “Il grande freddo” di Lawrence Kasdan chiude “Via da qui”. In “Fondamenta della Misericordia”, Giorgio, Marta, Dario, Silvia e Francesca si ritrovano su un’altana nello splendore decadente di Venezia a fare i conti con le proprie vite. Ad ammettere, senza troppi giri di parole, quanto si sia allontanato il percorso reale intrapreso da ognuno di loro da quello ideale. “Fuori dalle assi di legno dell’altana circondata da altri tetti, sospesa sull’acqua nera in cui galleggiava la città, erano rimasti i bambini non avuti e desiderati, le guerre, le carriere facili e quelle ostacolate, e la responsabilità tutta delle loro vite la cui àncora nessuno più sapeva dove fosse stata calata”.
La vita, nei racconti di Alessandra Sarchi, non gioca a mascherarsi. Non si trucca, non si agghinda per un evento speciale, non finge di essere quello che non è. Semplicemente, si ritira a guardare le donne e gli uomini protagonisti di queste cinque storie mentre si arrabattano a inventare soluzioni interlocutorie contro la delusione, il senso di straniamento, l’affastellarsi di complicazioni sempre più invasive. Concede loro la speranza che ci sia la possibilità di seguire un percorso diverso, di trovare una via di fuga. O, semplicemente, un’uscita secondaria. Anche se, poi, non interviene mai per fare in modo che si spalanchi davanti a loro un’alternativa.
In queste cinque storie, raccontate da Alessandra Sarchi con la forza limpida di una scrittura elegante e mai forzata, c’è la dolcezza e la malinconia, la delusione e l’ìllusione del dover affrontare la realtà armati soltanto della propria traballante energia. In una società che vende sorrisi a buon mercato, che spaccia speranze dalla scadenza troppo ravvicinata. Che lascia andare alla deriva della solitudine anche chi cerca disperatamente di trovare le istruzioni per l’uso del proprio essere. E fa fatica ad arrendersi all’assenza totale di un sogno condiviso.
<Alessandro Mezzena Lona