Le vie, le piazze, in giro per l’Italia le hanno dedicate a loro. Ai generali che hanno mandato a morire milioni di soldati nella Prima guerra mondiale. Ai burocrati delle operazioni militari, che se ne stavano ben lontani dal fronte. A chi è tornato a casa senza nemmeno un graffio, con la divisa impeccabile, il cuore messo a tacere aggrappandosi a una vuota retorica. Per gli altri, per i ragazzi che sono rimasti per sempre nelle trincee, per i contadini e gli operai, gli intellettuali interventisti e i pittori partiti volontari, soltanto silenzio. Un buco nero che ha cancellato la memoria. Un vergognoso lasciar per strada i ricordi, mettendo a tacere le voci. Dimenticando i volti, i nomi.
Volti e voci che Massimo Bubola è andato a cercare a ritroso nel tempo. Per raccontare l’altra guerra: quella dei soldati senza nome. Quella dei poveracci che hanno concimato con il loro sangue la terra arida del Carso, i campi di battagli sparsi per l’Italia, per l’Europa. Per costruire un libro che fosse al confine esatto tra la ballata e il racconto orale, tra la poesia e la testimonianza. Una storia di uomini, non di assetti tattici, di freddi calcoli strategici.
È nato così un libro bellissimo: “Ballata senza nome”, pubblicato da Frassinelli (pagg. 182, euro 17,90). Non un romanzo, ma una raccolta di storie, di piccole biografie. Di frammenti di vita colti nel momento in cui la Morte è ormai pronta a recidere l’ultimo filo. A riscuotere quello che le è dovuto. Un viaggio nel tempo lontano della Grande guerra, un ritornare a ricordi dolorosi, emozionanti, minimi ma folgoranti e terribili. Un affresco disegnato con le parole dal musicista e scrittore veneto che, giovanissimo, è stato al fianco del grande Fabrizio De André per scrivere due album indimenticabili come “Rimini” e “L’indiano”. Dove risplendono di luce purissima canzoni come “Fiume Sand Creek”, “Andrea”, “Sally”, “Volta la carta”, “Hotel Supramonte”. E quell’urticante capolavoro che racconta l’Italia sempre pronta a inginocchiarsi davanti alle mafie: “Don Raffaè”.
Bubola, autore di dischi tutti suoi, poesie e del romanzo “Il cielo d’Irlanda”, è partito da un episodio ormai dimenticato. La cerimonia del 28 ottobre 1921 nella Basilica di Aquileia. Quando a Maria Bergamas, che aveva perduto il figlio nella disgraziata guerra, venne affidato il compito di scegliere quello che sarebbe diventato il simbolo, il Milite Ignoto, tra undici feretri. Undici anonime bare contenevano i resti di altrettanti giovani soldati morti senza nemmeno l’onore del proprio nome sopra una tomba. Ragazzi andati al fronte conl’impedrativo della Patria che rimbombava nella testa e una grande paura che non sarebbero ritornati a quelle case dove regnava sovrana la miseria. L’abitudine a doversi guadagnare il pane lavorando duramente. E una familiarità con la Morte che soltanto loro conoscevano. Perché quando si sono attraversate “montagne di stanchezza, valli di lutti, boschi di lenzuola, rosari di gravidanze”, come era toccato alle loro madri e sorelle, “come poteva fare paura a noi contadini-soldati qualcosa di così familiare come la morte?”.
E allora, mentre la ballata senza nome entra nel mare grande dell’affresco pennellato con una lingua emozionale e sincera per costruire undici, umanissime miniature di ragazzi qualunque, morti per l’Italia e poi in fretta dimenticati, Bubola chiama sul palcoscenico della sua storia gli anonimi protagonisti. Uno dopo l’altro. Restituisce loro un nome, un’identità, una storia. Immagina lo strazio delle ultime ore vissute in mezzo al fragore delle granate, alle urla di terrore, alla convinzione che oltre la trincea non c’erano nemici. No, soltanto altri poveri giovani spediti lì in nome di un imperscrutabile disegno politico, economico. Per conto di un Potere che se ne stava ben nascosto nelle lontane stanze dei ministeri. Sulla scia di una campagna di glorificazione, di esaltazione della forza salvifica della guerra, considerata anche da troppi scrittori e intellettuali l’unica vera via per raggiungere una nuova “igiene” morale e sociale. Capace di rimodellare l’Italia, l’Europa. Il mondo intero.
Ciabattini e contadini, impiegati e fornai, sono i protagonisti di questa “Ballata senza nome”. Dove il racconto non si concede mai la tentazione della retorica. Dove le voci dei morti non risuonano mai sulle tonalità dell’odio, del rancore, ma intonano sommesse melodie di parole malinconiche, nostalgiche, intrise di un amore disperato nei confronti delle persone che non rivedranno mai più. Raccontano, insomma, la guerra di chi è costretto a imbracciare le armi senza un perché. Rischiando la fucilazione, qualora avessero disertare. Scoprendo l’umiliazione di una morte per dissenteria. Implorando una carezza, una parola gentile, un letto pulito e asciutto dove dormire per una notte senza sentire il gelo che ti morde le gambe. E la paura che ti accarezza con dita di filo spinato.
Nata da un elaborato progetto, che ha portato Bubola a incidere due dischi (“Quel lungo treno” e “Il testamento del capitano”), seguiti dall’album antologico “Da Caporetto al Piave”, la “Ballata senza nome” si rivela uno dei pochi, sentiti e necessari omaggi a chi la Grande guerra l’ha pagata con la vita. Perché il musicista e scrittore sa raccontare il lato umano di un’avventura militare sciagurata e senza senso. Di un inutile massacro che ha spalancato la porta ai troppi orrori del ‘900.
<Alessandro Mezzena Lona