• 06/12/2017

Juan Octavio Prenz, l’identità è un albero senza radici

Juan Octavio Prenz, l’identità è un albero senza radici

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L’identità è una parola. Un mondo immenso, mutevole e multiforme, cangiante e ingannevole, che può diventare manifesto, bandiera, centro di gravità. Ma che, alla resa dei conti, si rivela assai simile alla nebbia impalpabile. A un’onda di gocce d’acqua di cui, dopo poco, non resta più traccia. Perché soltanto gli alberi hanno le radici, mentre gli uomini continuano a cercarle per tutta la vita. Invano. Scoprendo, se sono onesti, di assomigliare molto più a un frastagliato mosaico che a un levigatissimo monolite.

L’identità è un “posto dove transitano le nazioni”, come scrive Juan Octavio Prenz. E non appena “ci si abitua alle nazioni, ecco che ne compare subito un’altra per rovinarti la festa”. Del resto, lo scrittore nato a Ensenada di La Plata in Argentina, scappato dal suo Paese nel 1975 prima a Belgrado, poi a Lubiana e infine a Trieste, ha provato sulla propria pelle quanto precari e inutili sono i confini. Quanto transitori sono i credo politici e quanto poco durino anche le più rigide strutture di Potere. Così, dopo aver dileggiato con chirurgica visionarietà l’arroganza dell’uomo e la sua brama di comando in “La favola di Innocenzo Onesto, il decapitato”, e dopo aver seguito la pirandelliana voglia di sparire da una realtà intossicata e deludente del “Signor Kreck”, affronta con scoppiettante capacità inventiva il tema della frammentarietà dell’essere nel suo romanzo “Solo gli alberi hanno le radici”, tradotto da Bettina Lilián Prenz per “La nave di Teseo (pagg. 317, euro 18) e accompagnato da un saggio introduttivo di Claudio Magris.

C’ tutto un mondo che pulsa, ama e odio, traffica e sogna, nel romanzo di Prenz. Ed è un microcosmo di gente qualunque, a tratti perfino anonima, ma che rivela di contenere dentro di sé un termitaio di avventure, aneddoti, infortuni, drammatiche esperienze, gioiose coincidenze, pronte a venire a galla ogni volta che lo scrittore, come uno scrupoloso entomologo, avvicina loro la lente d’ingrandimento della narrazione. A partire da Tihomir Croce, motore di tutte le storie, primo mobile di un impasto narrativo che porta il lettore a esplorare il paese argentino di Ensenada de Barragán. Un mondo piccolo dove si intrecciano i destini del mondo grande.

Ed è lì, che confluiscono migranti di diversi Paesi. Dove si ritrovano lingue, nomi, culture e credenze religiose di posti lontanissimi. E dove un profugo dell’Istria, terra in cui italiani, sloveni de croati formano da sempre un mélange di identità, idiomi e riti quotidiani assai frastagliato, può trovarsi in difficoltà nello spiegare a un poliziotto la pronuncia del suo nome e cognome: Tihomir Croce. Ma anche l’origine di quel suo essere, al tempo stesso, austriaco, ovvero cittadino dell’Impero di Francesco Giuseppe, ma anche italiano e un po’ croato. Anche perché, da parte dell’autorità costituita, si sente dire: “È l prima volta che mi ritrovo tra tanti stranieri, ma in dieci anni di servizio non mi è mi successo di incappare in una simile testardaggine”.

La testardaggine del pover’uomo consiste nel tentar di far capire che “il mio vero cognome era in altri tempi Kreuz, come si firmava il mio bisnonno, e prima di diventare Croce, la mia famiglia si era anche chiamata Kriz”. Se, poi, il luogo di nascita risulta Corridogo, conosciuta come Krinck o Khring ai tempi dell’Austria-Ungheria, ma anche Kringa, si capisce subito come un tal intreccio di identità faccia perdere la tramontana al povero poliziotto in questione. Tanto più, poi se al momento di congedarsi Tihomir Croce scoprirà di avere faticosamente dialogato, fino a quel momento, con il Sergente Cruz. Praticamente un suo omonimo, soltanto con il cognome virato in salsa argentina.

Nell’Ensenada de Barragán, Prenz fa convivere storie e destini diversissimi. Come quella dell’oste Miro Sterzai, che ha chiamato la sua osteria Il Sole Nascente, trasformata da uno scivolone linguistico in Il Sole Non Sente, che si trova a veder nascere un movimento rivoluzionario attorno alla necessità di ottenere un ospedale tuttofare. O come quella di Benigno Salvador Croce, che sceglie la via del silenzio, misurando le parole con il bilancino, forse perché schiacciato da quel doppio nome troppo ridondante. O forse confuso dal dover padroneggiare lingue diverse tra casa, scuola e il giro di amici. E poi c’è Frane Daicich che sceglie di abbandonare la sua Pola perché non sa gestire con serenità la sua statura troppo bassa. E finisce per inventarsi una vita immaginaria, con tanto di fidanzata, poi moglie, poi mamma del suo primo figlio inesistente, soltanto per regalare ai genitori lontani, e a se stesso, l’illusione che la vita finalmente abbia cominciato a sorridergli.

Sopra tutti loro, il destino tesse le sue trame. Portando l’Impero austroungarico a inabissarsi nell’incalzare della modernità. Facendo tuonare, in lontananza, i tamburi della Seconda guerra mondiale, che cambieranno per sempre l’Europa, il mondo. Lasciando risuonare gli echi di cambiamenti epocali, che trasformeranno per sempre la società, lo stesso modo di vivere e convivere. Ma Prenz, da questa folla di storie e di percorsi umani, riesce sempre a distillare emblematiche vicende che raccontano, come dice Magris con un’espressione presa a prestito da Umberto Saba, “la calda vita, una e che tutto in lei si tiene”. Dove anche la Morte perde la sua aura tenebrosa nella vicenda del bisnonno Alexandar Kreuz dato per defunto da parenti e amici. E che ritorna dall’aldilà, ma quando poi il suo tempo scade per davvero, finisce per deludere tutti. Perché tradisce la convinzione, radicata in molti, prete compreso, che gli sia stata risparmiata la partenza verso il suo inesorabile e misterioso viaggio. Trasformandolo in un uomo eterno. In un campione dell’identità granitica, inattaccabile.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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