Forse bisognerebbe partire da lì. Da quel sogno che Guillermo del Toro si portava dentro da quando aveva sei anni. Cioè da quando, al cinema, aveva visto il “Mostro della laguna nera”, la pellicola firmata nel 1954 da Jack Arnold. Sperando con tutto il cuore che la creatura venuta dal profondo dell’acqua riuscisse a conquistare Kay Lawrence, la bellissima attrice Julie Adams, che era stata Miss Little Rock. Un desiderio mai realizzato che però, a un certo punto, il regista messicano di Guadalajara ha capito di voler trasformare in un film tutto suo. Scritto e diretto da da lui. Ma anche in un romanzo dallo stesso titolo, “La forma dell’acqua – The shape of water”, tradotto in italiano e pubblicato adesso dalla casa editrice Tre60, che l’ha portato a sintonizzarsi totalmente con lo scrittore Daniel Kraus, conosciuto per “L’estate del coprifuoco” e “Trollhunters”.
Ecco, sì, bisognerebbe partire da lì, per raccontare “The shape of water”. E per capire questo film che ha avuto la forza di conquistare tredici nomination, e poi portarsi a casa quattro pesantissimi Oscar (Miglior film, sceneggiatura, scenografia e colonna sonora) in un’annata cinematografica in cui c’erano in circolazione colossi come “The post”, “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, “L’ora più buia”, “Il filo nascosto”, outsider spettacolari come “The disaster artist”, operine capaci di parlare anche a un pubblico di giovani come “Lady Bird”. Anche perché, a un certo punto, chi conosce Guillermo del Toro come il regista che ha saputo reinventare il cinema di genere, grazie a “Il labirinto del fauno” e “La spina del diavolo”, spalancando dentro una trama onirica e fantastica una finestra sugli aspetti più duri e violenti del Franchismo, potrebbe restare un po’ perplesso dalla sua svolta favolistico-hollywoodiana.
Incoronato alla Mostra di Venezia con il Leone d’oro, da aggiungere ai due Golden Globe e ai tre Premi Bafta raccolti strada facendo, “La forma dell’acqua” è ambientato a Baltimora nel 1962. In piena Guerra fredda, quindi. E proprio in un laboratorio governativo dove vengono effettuati esperimenti per prepararsi a un probabile, imminente scontro con gli odiati sovietici, arriva un giorno un misterioso reperto. Una creatura anfibia dall’aspetto umanoide, che attira dubito l’attenzione di Elisa Esposito (la bravissima Sally Hawkins, già vista ne “La felicità porta fortuna – Happy go lucky” di Mike Leigh e “Blue Jasmine” di Woody Allen), pure lei, in qualche modo, aliena al mondo in cui vive. Dal momento che è affetta da mutismo, in seguito alla recisione delle corde vocali quand’era bambina. E che, per guadagnarsi da vivere, deve fare le pulizie nei segretissimi locali.
Quello di Elisa è un mondo fatto di silenzio, intensi momenti di autoerotismo, che rappresentano soltanto il surrogato di una vera storia d’amore, grande sintonia con la collega afroamericana Zelda Delilah Fuller e vera amicizia con il pittore e illustratore Giles, che vive con imbarazzato tormento la propria omosessualità. Un microcosmo che assomiglia, in qualche modo, a quello della creatura ambigua, strappata dal suo mondo di acqua e foreste in Amazzonia, dove gli indigeni la veneravano come fosse una divinità. Normale che tra la Esposito e la creatura inizi un dialogo muto fatto di piccoli gesti, delicate attenzioni, storie raccontate con la lingua dei segni, fino a quando il destino del mostruoso essere dall’animo gentile viene messo in grave pericolo dal violento colonnello Richard Strickland. Un tipo senza scrupoli che vede nella possibilità di vivisezionare il mostro un’occasione per ottenere preziose informazioni sulla sua struttura anatomica. E utilizzarle, poi, nella corsa allo spazio con gli scienziati dell’Urss, quando l’America sarà in grado di spedire degli uomini oltre i confini della Terra.
Elisa non può accettare che un’altra creatura sfortunata come lei venga ammazzata solo per l’ansia di far carriera di uno squallido ometto. Così, con la complicità dello scienziato Hoffstetler, una spia dei sovietici dal cuore buono, e l’aiuto di Giles e Zelda, decide di rapire l’uomo anfibio e lo trasferisce nella vasca di casa. Ma sarà difficile riuscire a nasconderlo per sempre, a farlo vivere lontano dal suo habitat naturale. Anche se lui, ricambiando tutto l’amore che lei gli può donare, piano piano comincia a mutare, sarà necessario restituirlo alla Natura, farlo scappare da quella città inospitale. In un finale adrenalinico tutto da interpretare.
Fiabesco omaggio al cinema degli anni Cinquanta, pieno di citazioni che faranno impazzire dalla gioia i cinefili più agguerriti, “La forma dell’acqua” doveva essere girato in bianco e nero. Raccontando la storia con gli occhi dell’anfibio umanoide, nelle intenzioni di Guillermo del Toro, per coronare il suo antico sogno di vedere la Bella innamorarsi e fuggire con la Bestia. Poi, dissuaso dalla casa di produzione a seguire quella linea narrativa, il regista si è persuaso a cambiare rotta. E dopo nove mesi di definizione dell’aspetto della creatura, con un budget a disposizione di quasi venti milioni di dollari, ha iniziato a girare questo film che spacca il giudizio del pubblico in maniera drastica. Perché c’è chi lo considera una furba operazione commerciale, fintamente buonista, e chi lo vede come una splendida fiaba moderna antiamericana, e critica nei confronti del Potere più in generale.
Il grande merito di del Toro, in ogni caso, è stato quello di riuscire a girare un film hollywoodiano senza vendere l’anima al mercato. Anzi, costruendo la sua favola dolceamara con gli occhi sempre bene aperti sul volto nascosto dell’America. Paese capace di incantare con i suoi capolavori da grande schermo, con i musical, con i comics, ma altrettanto feroce nel suo progetto di imporre un proprio ordine mondiale. In più, è riuscito a evitare l’effetto E.T., dando sì alla creatura anfibia un cuore sensibile e capace di sintonizzarsi con la dolce Elisa, senza dimenticare, però, che la Natura ha le sue leggi ferree e crudeli. Esemplare la scena in cui l’umanoide incontra i gatti in casa di Giles e non esita a mangiarsene uno, staccandogli la testa.
Architetto di incubi, bravissimo nel ricamare atmosfere inquiete, questa volta del Toro ha voluto costruire un ponte tra il mondo reale e certe reminiscenze ancestrali. Miti che affondano le radici nelle storie raccontate nel mondo antico. Favole oscure e bellissime dentro le quali viveva l’illusione che ci potesse essere un equilibrio armonico sulla Terra. Che la violenza, la furbizia, l’arroganza, non avessero sempre il sopravvento. Ecco, il regista è stato bravo soprattutto in questo: nel saper raccontare una storia dietro la quale si possono intravedere, leggere, significati profondi. Senza, però, trasformare il suo visionario film (fotografato con grande bravura da Dan Laustsen) in uno stucchevole predicozzo moralistico.
Un fatto è certo: il Mostro della laguna nera, adesso, può riposare in pace.
<Alessandro Mezzena Lona