“E il Verbo era Dio”. Non c’era concetto più forte, più preciso, per definire quello che l’umanità ha inseguito, adorato, inventato nel corso di tutta la sua storia. La figura di un essere superiore, immortale, perfetto. Dio, appunto. E, allora, c’era il Logos, il Verbo, la parola insomma, quello straordinario strumento di comunicazione creato dal nulla per dare una forma alle cose, per definire la realtà, per fissare la differenza tra animali capaci di comunicare e gli altri. Ed era lì pronto a incarnarsi nell’Assoluto. Per spiegare che tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. Per l’evangelista Giovanni non c’erano discussioni. Perché quella era la Parola del Signore. “In principio era il Verbo”.
Logos, Verbo, Parola. È quello il legame segreto che unisce la vita alla Storia e alle microstorie. Al vissuto personale. Una sottile, eppure indistruttibile ricerca della sintonia tra il corpo e la mente, tra il pensare e l’agire. Tra il divenire di una persona, di un uomo, di una donna, e il linguaggio che li hanno portati ad attraversare la propria esistenza. A trasformare le parole in esperienze, successi e delusioni, pregiudizi e desideri, sogni e cocenti sconfitte. Per diventare poi ricordi, testimonianze, per formare il mosaico di una vita intera. E costruire quello che è il racconto del nostro essere. In un’autobiografia. O, meglio, come dice lo scrittore e giornalista Tommaso Giartosio, in un’Autobiogrammatica.
E proprio questo iniziatico, apparentemente oscuro, ma efficacissimo titolo è quello che Tommaso Giartosio ha scelto per la sua nuova opera. “Autobiogrammatica”, appunto, pubblicata da minimum fax (pagg. 441, euro 19), la casa editrice che nel 2024 compie trent’anni allineando da sempre sugli scaffali delle librerie tanti libri coraggiosi e belli. Il romanzo, ardita contaminazione di generi, è entrato nella dozzina delle opere selezionate per comporre, poi, la cinquina dei finalisti al Premio Strega 2024. Il 5 giugno. nella serata al Teatro Romano di Benevento, sapremo chi sono gli scrittori che si giocheranno la vittoria il 4 luglio nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.
E non è una presenza così scontata, quella di Tommaso Giartosio, tra i dodici pretendenti al Premio Strega. E non è neppure casuale che si faccia il suo nome anche tra i possibili finalisti del Premio Campiello 2024, che verranno scelti dalla Giuria dei Letterati presieduta per il terzo anno da Walter Veltroni venerdì 31 maggio nella splendida sede dell’Università di Padova: Palazzo Bo. Perché “Autobiogrammatica” è, senza dubbio, uno dei libri migliori di quest’annata editoriale. Ma, al tempo stesso, è un’opera cher avrà creato inquietudine e turbamenti in più di un editor. In uno di quegli operatori editoriali, per intenderci, che selezionano i testi meritevoli di pubblicazione, convinti pervicacemente che i lettori italiani siano fortemente allergici alla letteratura. E che vogliano vedersi propinare soltanto romanzi facili facili. “Da portare al mare nella borsa da spiaggia”, come ripeteva spesso uno dei giurati che ha selezionato i finalisti del Campiello per parecchi anni.
“Autobiogrammatica” non è certo un libro furbo, accattivante, scritto per compiacere i lettori e vendere migliaia di copie. Ma, in compenso, è come un grande maelstrom letterario. Dove la libertà di intrecciare storie, di fare del narrare un viaggio liberissimo per decifrare le cose della vita e del mondo, traccia la rotta della ricerca del tempo perduto che Tommaso Giartosio compone in un crossover di stili e di voci. Ricostruendo il suo lessico famigliare. Raccontando, con un potente flusso di coscienza, le tappe della vita di un bambino, poi ragazzo, poi giovane uomo, attraverso le parole. Riportando in scena le due lingue parlate dai genitori. Quella della scuola, che diventa presto un viaggio nell’ignoto. E poi, ancora, quelle della politica e dell’attrazione forte per le ideologie, della seduzione scandita dall’amicizia, dal desiderio, dall’amore.
L’Italia che attraversa questo libro, che nutre il suo impasto letterario, che fa da fondale e da co-protagonista, è un luogo del tutto personale. Perfetto per accompagnare l’apprendistato al vivere in un testo che è impossibile dire (con somma gioia del lettore che non si piega alla dittatura del plot) se sia più romanzo o saggio, memoir o reportage culturale, poesia contaminata dalòa narrativa. Perché fa spazio, in sé, alle mille contraddizioni e dalle altrettante seduzioni della realtà.
Leggere “Autobiogrammatica” significa capire che le parole, il Logos, il Verbo, hanno un sapore, un colore, un suono che si impara piano piano a riconoscere, a decifrare. E che, lentamente, ci insegnano a mettere a fuoco le cose del mondo. Perché in ognuna di esse, diceva la grande scrittrice brasiliana di origine ucraina Clarice Lispector, batte un cuore.
Tommaso Giartosio porta i lettori ad ammettere che, per ognuno di noi, esiste un abbecedario, un manuale di istruzioni per decrittare i sentimenti. I colori bui della paura, le mille sfumature del desiderio, l’esplosione cromatica della gioia, il cullarci tenero degli affetti, l’ansia dei traguardi da raggiungere, il miele delle emozioni che ci accompagnano fin dai primi anni del nostro cammino sulla Terra. E ognuna di queste emozioni ha intriso in sé il sapore forte e delicato, dolce e amarissimo delle parole che le esprimono.
“Ho iniziato a scrivere ‘Autobiogrammatica’ cinque anni fa – racconta Tommaso Giartosio, che è stato ospite del Salone del Libro di Torino -. Però, in realtà, ho ritrovato degli appunti con questo titolo che risalgono a prima del Duemila. Ho sempre lavorato sulla dimensione autobiografica, sull’infanzia, sul viaggio, sulla mia città. Sono i temi che accompagnano libri come ‘Doppio ritratto’, ‘L’O di Roma’, ‘Un viaggio in Eritrea’, ‘Come sarei felice. Storia con padre’. E poi, quello che mi ha sempre affascinato è la scrittura che sta a cavallo tra i generi. Una narrazione che sappia fondere la saggistica e la poesia. Per andare alla ricerca di uno stile tutto mio”.
Da dove è partito?
“Il primo spunto è stato quello di raccontare l’infanzia di un ragazzino cresciuto in un mondo che gli parla, e lo fa parlare, in due lingue diverse. Poi è logico che costruendo un libro che ruota attorno al linguaggio, i temi si moltiplicano. Se lo scrittore si sofferma ad analizzare il rapporto che ha con le parole, poi si aprono orizzonti larghissimi. In cui rientrano sensazioni, emozioni, ricordi, relazioni, infinite associazioni. Il segreto, poi, sta nella capacità di tagliare. Di decidere di che cosa non parlerai, scegliendo in quel magma di storie”
Un grande lavoro di introspezione?
“Ho lavorato soprattutto sulla narrazione. Andando a cercare quei motivi fondanti che si ripetvano nel corso della vita. Poi, trovati i fili conduttori, ha preso forma questo viaggio dove la lingua diventa origine e coscienza del mondo abitato dala protagonista”.
Non c’è mai, in “Aotobiogrammatica”, la tentazione di commiserarsi, che piace a troppi scrittori oggi…
“Io sono in una posizione equidistante tra la necessità di raccontare il dolore e il pericolo di ridurre il racconto dell’io alla posizione della vittima. Daniele Giglioli ha scritto un saggio, intitolato ‘Critica della vittima’ e pubblicato da Nottetempo, di cui non sposo in pieno la tesi della vittima come eroe del nostro tempo. Però il pericolo di cui lui parla è reale. Per questo sono convinto che sia necessario trasformare la posizione di chi viene discriminato, di chi è considerato differente, trasformando il racconto della realtà in un punto di vista più ampio e articolato. Spero di essere riuscito a seguire questa traiettoria nel mio libro”.
Due figure giganteggiano sul libro: il padre e la madre?
“Mio padre incarna il silenzio maschile, del capofamiglia. Un silenzio autorevole, che mette in luce subito quello che manca nel suo comportamento, ma che al tempo stesso spalanca lo spazio alla parola. È chiaro che nel libro diventa una figura ambivalente. Un po’ come mia madre, anche se lei è caratterizzata da un sogno opposto. Ha una lingua fluviale, le sue parole proliferano. Perché lei è incastrata in un continuo gioco di cliché, frasi che diventano caratteristiche. Dona ai figli un linguaggio ma, al tempo stesso, il suo torrentizio comunicare è talmente ridondante che rischia di bloccare tutto. Ovviamente, io racconto padre e madre per il loro rapporto con le parole. Poi, dietro le pagine del libro, ci sono due persone reali, che hanno avuto vite molto particolari”.
Un grande atto d’amore per la lingua italiana, questa ‘Autobiogrammatica’?
“L’italiano è una lingua che si è sempre fatta contaminare. Ogni capitolo della sua storia non può non raccontare tutti gli influssi degli inglesi, dei francesi, degli spagnoli, perfino degli arabi, che hanno lasciato i loro segni nelle parole. Ci sono scrittori come Walter Siti, di cui sto leggendo il nuovo libro ‘I figli sono finiti’, che fa di queste contaminazioni uno dei suoi aspetti caratterizzanti.. A me interessa lavorare sulla lingua italiana soprattutto per il grande rapporto che c’è tra le parole e gli universi personali. Quello del padre e della madre, quello degli scrittori e dei libri amati, quello dei riferimenti ad altre lingue e ad altri significati. In un gioco continuo di rimandi, che ha a che fare anche con la nostra identità di europei. È in quella direzione che stiamo andando”.
C’è un episodio emblematico, nel libro: quello dei monaci buddisti…
“Ai monaci buddisti veniva dato un nome segreto scritto su un pezzo di carta. Che loro, poi, dovevano ingoiare. Mi affascina molto, in questo episodio, l’idea stessa che la parola, il nome, a un certo punto diventino parte del corpo stesso. Questa storia ha valore simbolico. Che, adesso, ci fa pensare molto alla diffusione dei tatuaggi. Sullo scrivere parole, anche in lingue sconosciute, sulla propria pelle. Noi, da ragazzi, facevamo soprattutto i tatuaggi trasfgribili, che dopo un po’si cancellavano. Ma era, comunque, una scelta di rottura. Un affermazione di voler fondere le parole, le idee, al proprio corpo. Assai più controcorrente del fenomeno di adesso, che è diventato ormai di moda, di massa. Però, in ogni caso, scrivere sul corpo significa ammettere che la parte del linguaggio che ho scelto diventa parte di me. E lo rivendico pure”.
Il corpo, uno spazio su cui scrivere?
“Non c’è dubbio che, crescendo, il corpo diventa sempre più uno spazio di cui ti appropri attraverso le botte ricevute per difendere le proprie idee politiche. Ma anche percorrendo la ricerca del piacere sessuale magari con pratiche sadomasochistiche. La corporeità, crescendo, diventa un linguaggio molto forte”.
C’è anche una grande sintonia con gli animali.
“C’è una relazione tra bambini e animali che è antichissima. Però non possiamo negare che c’è un certo modo di identificarsi con gli animali che è caratteristico di un’alienazione. Cioè, io mi sento vicino al mondo animale perché lo percepisco come una difesa dall’idea di diventare uomo tra gli uomini. Soprattutto quando, da adolescenti, si comincia ad andare verso l’età adulta. A quel punto, diventa un movimento regressivo. Nel mio libro ho voluto sottolineare l’aspetto positivo e quello negativo di un atteggiamento del genere. Che nasce da una passione autentica per gli animali, che poi potrebbe escluderti, ma anche no, dall’idea di crescere veramente. Di andare avanti”.
“Autobiogrammatica” è un libro dai mille volti?
“Credo sia un libro che puoi leggere in molti modi, affrontandolo su diversi piano. Quando lo presento ai lettori mi succede di parlare di alcune pagine, di certi personaggi, che magari possono essere più facili da capire e da apprezzare. Il Premio Strega è nato segnalare libri e scrittori di sicuro valore letterario, che poi venivano letti da moltissime persone e riuscivano a vendere anche un bel po’ di copie. Quindi, la sfida vera è riuscire a fare ancora oggi letteratura alta cercando, però, di non chiudersi in un angolo. Ma portando questi libri a tanti lettori”.
Sembra costruito per affascinare lettori diversissimi.
“Ho fatto un grande lavoro di montaggio del testo. La prefazione, ad esempio, ha un forte elemento narrativo e serve a illustrare il progetto libro. Ho costruito un’opera che racconti il divenire della vita attraverso il linguaggio. Infatti, ogni volta che mi capita di parlare di ‘Autobiogrammatica’ cambio la prospettiva. Cerco di inventarmi un approccio diverso per attirare la curiosità di lettori sempre diversi. Del resto, i temi sono tantissimi: dalla scoperta della poesia di Ezra Pound alla necessità da parte della famiglia di fare i conti con il fascismo, dai rapporti con due compagni di classe all’ingresso invasivo della politica nel mondo della scuola. Ma ci sono anche riflessioni sulla morte attraverso le parole. Insomma, è è un libro che si può raccontare come una piccola enciclopedia fatta di storie e parole”.
<Alessandro Mezzena Lona