• 05/06/2018

Adriana Itri, la tela racconta storie

Adriana Itri, la tela racconta storie

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C’è un mondo di storie dentro i quadri di Adriana Itri. E chi non si ferma ad ascoltarle, a leggerle, a interpretarle, rischia di non capire il suo lavoro d’artista. Perché dentro la tela, dietro la tela, prende forma un viaggio immaginario, un percorso narrativo, un intreccio di emozioni e sensazioni, di dolore e gioia, che si trasforma poi in colore, materia, chiaroscuri, ombre e luci. Figure da guardare, paesaggi da ricostruire con la fantasia, presenze evanescenti da riconoscere, richiamare sul palcoscenico della realtà.

Non stupisce, proprio per questo, che Adriana Itri abbia scelto di intitolare la sua nuova mostra “Il tempo delle storie”. Perché è lì, dentro quella voglia di raccontare sulla tela vite, destini, esperienze belle e tragiche, momenti di malinconia e giornate piene di luce, che comincia il percorso artistico della pittrice triestina. Basta fermarsi a guardare le sue opere esposte nella Sala Veruda di Palazzo Costanzi a Trieste, fino al 10 giugno, per rendersene conto. In esposizione ci sono soprattutto quadri grandi realizzati tra il 2017 e quest’anno, a parte un paio di tele che risalgono a cinque anni fa. Si possono vedere, insomma, una quarantina di opere in tutto.

Quadri di grande e piccolo formato divisi, essenzialmente, in tre sezioni: quella delle tele astratte, quella degli abiti-anime e poi una serie di rielaborazioni materiche di immagini, di fotografie, di volti, di figure che sono riuscite a comunicare emozioni alla pittrice. Non manca un corto viaggio artistico dentro i boschi, luogo emozionale che Adriana Itri ha frequentato per dare corpo e voce a sensazioni forti provate in alcuni momenti essenziali della sua vita.

Autodidatta, ritornata alla pittura con convinzione una quindicina di anni fa, dopo aver amato fin da bambina il gusto arcano di dare sostanza alle proprie emozioni, alla fantasia, sulla carta con i colori, le matite e i pennelli (“ricordo che appendevano i miei disegni nell’atrio della scuola”), Adriana Itri è partita dall’acquarello. Convinta che, per trovare la propria via iniziatica all’interno dell’espressione artistica, fosse necessario per lei lavorare con grande libertà. Assecondando quel ritmo segreto che le andava dettando, dal profondo del suo desiderio creativo, forme, immagini. Storie.

Quando ha creduto che l’apprendistato con l’acquarello fosse arrivato al punto giusto, Adriana Itri ha cominciato a dipingere a olio su tela, cercando di assecondare il proprio desiderio di sperimentare sempre. Ma guardandosi, al tempo stesso, attorno per capire quali fossero i trucchi del mestiere. Le prime mostre, dal 2006, i concorsi, le ex-tempore, l’hanno aiutata a crescere, a confrontarsi con altri artisti. E dopo un po’ sono arrivati i primi premi, l’attenzione di critici attenti ed esigenti come Carlo Milic, altre personali sempre più importanti.

“Non sono mai stata un’artista capace di seguire una strada sola – racconta Adriana Itri -. Mi piace sperimentare, cambiare, e mi rendo conto che, spesso, questo mio modo di lavorare può spiazzare anche i critici che apprezzano il mio percorso. Per esempio, dopo i quadri a olio ho voluto provare altre tecniche: il collage, l’uso di materiali diversi, la stratificazione materica sulla tela. In quel periodo, oltre a una mostra alla Sala Fittke a Trieste, che ha ottenuto un grande successo, mi sono spinta verso altre piazze: Treviso, Lubiana, Monaco. Senza mai ascoltare nessuno, se non quello che mi detta il mio cuore, la fantasia. Cercando di evitare l’aspetto più brutto del mondo dell’arte, quello puramente economico, commerciale. Quello che ruota solo e unicamente attorno al denaro”.

E poi ha cambiato ancora?

“Sì, ho preso un nuovo studio vicino a San Giusto. E mi sono dedicata molto a pitture murarie, all’acrilico, agli smalti. Arrivando a creare le opere che faccio oggi. Nate dalla mia grande voglia di vivere l’arte come emozione, come ascolto anche del dolore, della malinconia. Di sentimenti forti, che non si possono ignorare e che dettano storie intense”.

Storie come quelle che si incarnano nella serie degli abiti-anime?

“Questa serie di quadri nasce da un pensiero triste. Perché io provo una grande empatia nei confronti di persone che non ci sono più. Le ricordo, le riporto nel presente in forma di vestiti vuoti. Come anime sospese. L’idea è nata quando è morta mia madre, due anni fa, e io mi sono trovata a dover vuotare i suoi armadi. A togliere i vestiti che l’hanno accompagnata nella vita. Lì è nato il primo quadro, poi ne sono arrivati altri”.

Presenze-assenze da dipingere con emozione?

“Uno dei quadri-abiti, che non vuole essere un ritorno al figurativo, ma una rielaborazione dell’astratto in chiave spirituale, ricorda la storia di Giulia. Una ragazzina morta a 15 anni, investiva sulle strisce pedonali mentre stava andando a scuola. L’ho portata sulla tela, con enorme emozione, affidandomi a un pensiero leggero. Perché, pur senza dimenticare la tragedia, la sento presente. Come fosse un angelo che partecipa invisibile alla nostra vita. L’ho raffigurata come un abito bianco con una serie di farfalle dorate disegnate su un fianco”.

L’astratto come trasfigurazione di un mondo interiore?

“Amo molto l’astratto, anche se mi rendo conto che certe persone fanno fatica a capirlo. Nei miei quadri ci sono sempre molti riferimenti concreti a me, alla mia vita, alle emozioni che voglio comunicare. In ogni tela, ad esempio, disegno dei fiori recisi, che mi rappresentano totalmente. Danno voce alla solitudine che odobbiamo attraversare vivendo. Ma anche alla diversità, perché ognuno di noi è se stesso anche in mezzo agli altri. Un artista, poi, si sente ancor più solo e diverso perché sente non solo con il cuore e con la mente, ma anche con quell’impulso misterioso che lo porta a raccontare nelle sue opere le cose che lo circondano”.

I suoi boschi assomigliano a tempeste dell’anima…

“È così. Ho voluto portare in mostra solo un paio di quadri dei boschi. C’è stato un periodo non facile della mia vita in cui mi immaginavo dentro un bosco intricatissimo. Quasi prigioniera di un groviglio fatto di rami pieni di spine, che mi impedivano di muovermi senza ferirmi. Ecco, è stato il racconto di un momento da cui, poi, sono uscita. Ma anche queste tele rappresentano momenti di passaggio della mia vita, di quello che provo e poi trasformo sintonizzandomi con la voglia di creare. Di raccontare”.

Lei racconta la vita anche con una serie di opere che partono da un’immagine per, poi, farla mutare.

“Prendo una foto, la porto sulla tela, e lì inizia la storia. Percorsi di vita di giovani donne dove si possono vedere foglie che cadono e rose che vanno verso l’alto, come a voler raffigurare i diversi tempi che ci aspettano lungo il percorso”.

Le storie nascono prima del quadro?

“Le storie ci arrivano da ogni direzione. Basta saperle ascoltare, cogliere. A volte basta il fotogramma di un film, un frammento di racconto che ci scivola accanto mentre passiamo per strada. Poi devi saperlo interpretare, rielaborare con la tua sensibilità. Ed è lì, in quel momento, che la storia diventa quadro”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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