Ha imparato in fretta a guardare la vita negli occhi, James Ellroy. Visto che, quando sua madre Geneva venne ammazzata a El Monte, lui aveva soltanto dieci anni. Da quel delitto, da quel mistero irrisolto, lo scrittore di Los Angeles non si è mai liberato. Nemmeno dopo averlo raccontato, in forma di indagine, nel suo secondo romanzo. Un libro intitolato “Clandestine”, pubblicato negli Stati Uniti nel 1982 e tradotto appena 11 anni dopo, nel 1993, in Italia per la collana Iperfiction di Mondadori. Thriller che sarebbe entrato, nel 1997, nella prestigiosa serie dei Gialli nella versione di Lidia Perria.
Da allora, James Ellroy ha continuato a guardare la realtà con estrema lucidità, regalando pochi sogni a se stesso. Rifiutandosi di cullare i suoi lettori nell’illusione che ogni indagine poliziesca vada, poi, a buon fine. Con tanto di scoperta dell’assassino e, magari, anche di processo esemplare. Non è stato così per il caso della “Dalia nera”, l’omicidio di Elizabeth Ann Short rimasto senza un colpevole, senza una spiegazione, che ha generato il capolavoro assoluto dello scrittore americano. E nemmeno per il clamoroso delitto di JFK, il presidente democratico degli States John Fitzgerald Kennedy. Una sporca faccenda su cui rimangono ancora oggi numerosi, e imprescindibili, dubbi. Una trama perfetta per il prolifico narratore, che le ha fatto girare attorno la sua trilogia composta da “American tabloid”, “Sei pezzi da mille” e “Il sangue è randagio”.
L’omicidio della madre, il brutale assassinio della Dalia Nera, avvenuto vicino alla casa di James Ellroy, non hanno mai smesso di far cercare allo scrittore altre storie torbide e senza una soluzione. Le ultime hanno dato forma a un sorprendente libro intitolato “Cronaca nera”. Tradotto da Alfredo Colitto per Einaudi Stile Libero (pagg. 103, euro 12), riflette nello specchio della narrazione due storie apparentemente diverse. Eppure nettamente connesse tra loro.
In “Career Girl Murder”, James Ellroy va a rispolverare un doppio delitto di cui nessuno conserva memoria. Anche perché l’assassino di Emily e Janice decise di entrare in azione il 28 agosto del 1963. Proprio il giorno in cui Martin Luther King, che verrà ammazzato pure lui, decise di pronunciare il suo discorso più famoso: quello di “I have a dream”. Al termine della marcia per i diritti civili di Washington. Infatti, al caso delle due giovani donne massacrate dentro casa non venne affidata una delle pattuglie di punta in servizio a Manhattan. Anche se, come sempre accade, i poliziotti di New York si sentirono addosso da subito una pressione pazzesca per risolvere il caso.
E poi, quelle due donne morte non erano delle prostitute. Non frequentavano i bassifondi della Grande Mela. James Ellroy racconta che Janice lavorava a “Newsweek”, veniva da una famiglia di artisti, fin da ragazzina si era fatta notare negli spettacoli teatrali a scuola. E poi aveva un suo fascino difficile da nascondere. Emily, più scialba, forse con meno personalità, desiderava da sempre di fare l’insegnante. Insomma, erano due brave figlie dell’America che non smette di sognare un futuro di gloria per tutti. E allora, chi si era azzardato a mettere le mani su di loro? A soffocare quelle giovani vite nel sangue, a scempiare i loro corpi? Chiunque fosse, doveva essere punito in maniera esemplare.
Il classico cronista di nera avrebbe scritto che la polizia, dopo le prime indagini, brancolava nel buio. James Ellroy preferisce raccontare i dettagli dell’inchiesta con una precisione chirurgica. Spezzando le frasi, portando tutto il gelo dell’incertezza, dell’impotenza davanti a un caso così difficile, provate dai poliziotti. Eppure, bisognava farsi venire un’idea. Accelerare i tempi. Così, il tritacarne di una giustizia ingiusta, che non tiene conto dei disastri provocati da una serie di errori fatti non sempre in buona fede, puntò gli occhi su George Whitmore. Un ragazzo dalla pelle scura, molto ingenuo e incapace di tenere al loro posto gli sbirri. Di non dargli confidenza, di non lasciarsi suggestionare. Dovrà passare un bel po’ di tempo, tra prove taroccate e confessioni forzate, prima che i giudici capiscano di avere imboccato la strada sbagliata.
Più o meno sulla stessa falsariga è anche la storia di “Clash by Night”, secondo capitolo di “Cronaca nera”. Solo che qui, a complicare le cose, è il fatto che il 12 febbraio del 1976 viene trovato accoltellato in strada un giovane uomo. Per molti fan del cinema e del teatro è quasi un mito. Si chiama Sal Mineo, ma il suo vero nome è Salvatore, nato nel Bronx da due genitori di origine siciliana. Ha conosciuto un’improvvisa notorietà dopo avere fatto da spalla a James Dean in “Gioventù bruciata”, e averlo affiancato, poi, anche nel suo ultimo film, “Il gigante”, prima che il divo nato a Marion, nell’Indiana, si schianti in macchina il 30 settembre del 1955.
La morte per accoltellamento di Sal Mineo porta alla ribalta la sua vita da “Gioventù bruciata”. Alcol, droga, incontri frequentissimi con giovani uomini, da cambiare in continuazione. Ma questi sono fatti privati, che non conducono i poliziotti di Los Angeles a niente. Perché la pista del delitto passionale, per motivi omosessuali, non regge. Non trova conferma. E allora spunta un assassino a caso. Lui si chiama Lionel Ray Williams, fa il fattorino e consegna pizze a domicilio. Viene incastrato dalla legge perché la sua stessa compagna dice che si vantava di avere ammazzato l’attore Sal Mineo mentre sullo schermo della tv di casa scorrevano le notizie dell’accoltellamento in strada. Ma non ci sono riscontri, non si riesce a trovare un movente che regga. Contro di lui gioca il pregiudizio, la pessima fama che si è fatto, dato che ha messo a segno una decina di rapine. Infatti, verrò condannato a 57 anni di galera. Ma negli anni ’90 i giudici decideranno di rilasciarlo sulla parola.
James Ellroy regala ai lettori, con le due storie di “Cronaca nera”, un momento di vera letteratura. Perché li costringe a seguirlo sulle strade oscure dell’incertezza. Là dove nessuno può alzare la mano è dire: sono innocente. Là dove tutti, ma proprio tutti, si lasciano suggestionare dal desiderio di fare giustizia. Di trovare una soluzione al delitto delle due ragazze, dell’amato attore Sal Mineo. Persone “nostre, da piangere e vendicare”.
Ed è proprio l’amore, il lasciarsi cullare da un sentimento così ambiguo e forte, l’anteporre le ragioni del cuore a quelle della ragione, “il motivo principale per cui tutto andò in malora”, scrive James Ellroy. Perché non si può incriminare un innocente, non si può incarcerare con prove false un estraneo ai fatti, soltanto per l’ansia, il desiderio incontenibile di darsi una risposta tranquillizzante. Per illudersi che valga ancora il “non praevalebunt” delle tenebre sulla luce. Per fingere che sia sempre il Bene a trionfare sul Male.
<Alessandro Mezzena Lona