• 27/01/2020

Dag Solstad, il silenzioso fascino del non essere

Dag Solstad, il silenzioso fascino del non essere

Dag Solstad, il silenzioso fascino del non essere 1024 576 alemezlo
A guardarsi in giro, Dag Solstad sembra uno scrittore arrivato tra noi a bordo della macchina del tempo. Ma no, non perché i suoi libri assomiglino ad arditi voli della fantasia verso il futuro. Anzi, l’autore di Sanderfjord può ricordare, piuttosto, un reperto di un passato che sembra lontanissimo. Un tempo, insomma, in cui la letteratura non faceva i conti ogni giorno con il numero di copie vendute, con i gusti mutevoli dei lettori, con le mode che ti portano dritto dritto ai primi posti delle classiche. E chi ha provato ad affrontare i suoi romanzi, da “Tentativo di descrivere l’impenetrabile” a “Timidezza e dignità”, da “La notte del professor Andersen” a “Romanzo 11, libro 18”, (leggi in questo blog Arcane Storie “Dag Solstad, la forza tranquilla di dire no” del 4 aprile 2018) avrà capito bene quanto netto e ben tracciato sia il percorso letterario di quello che è considerato una vera e propria icona del mondo culturale norvegese.

Ma attenzione a non scambiare Dag Solstad per uno scrittore pedante. Uno, insomma, con gli occhi rivolti al passato e incapace di leggere il suo tempo. Anzi, la forza dell’autore norvegese sta proprio nel suo stare con i piedi ben piantati al centro della realtà. Tanto per dire, tra gli anni ’70 e ’80 non ha esitato ad aderire al piccolo partito di tendenza maoista AKP-ml. Scelta che non ha mai rinnegato, anche se alla morte di Mao s’è defilato con grande eleganza, preferendo continuare a esercitare da lupo solitario il diritto di critica nei confronti dei tanti errori della socialdemocrazia in Norvegia,. E, più tardi, sul non voler ammettere la deriva razzista del suo Paese. Tanto da ostinarsi a considerare la strage firmata dal terrorista neo-nazista Anders Breivik, nel 2011, soltanto un episodio isolato.

Anche nella sua vita privata, Dag Solstad non ha mai recitato la parte del misantropo, del solitario. Se è vero che si è sposato per ben tre volte. E che, quando si è affacciato al mondo letterario norvegese, non ha esitato a spiazzare la critica. Per la sua capacità di richiamare subito alla memoria le atmosfere letterarie di grandi autori del ‘900 come Franz Kafka, Samuel Beckett, perfino Robert Musil e Italo Svevo. Pur senza mai negarsi la voglia di sperimentare uno stile narrativo che guarda con grande interesse alla saggistica, alla sociologia, a una seria analisi della situazione politica del tempo in cui i libri sono ambientati.

In più, nei suoi libri Dag Solstad si è sempre concesso un’ironia mai gridata, ma sempre presente sottotraccia, che potrebbe richiamare alla memoria lo sguardo gelide e beffardo di un Thomas Bernhard. Ma anche il sottile, perturbante e anarchico modo di rovesciare la prospettiva sulla quotidianità di Harold Pinter.

Chi legge un romanzo di Dag Solstad, alla fine lo annovera subito tra gli autori irrinunciabili. Perché ogni suo libro assomiglia a un esercizio senza rete. A un viaggio apparentemente banale a cui mancano, all’improvviso, le coordinate. “T. Singer”, splendidamente tradotto da Maria Valeria D’Avino per Iperborea (pagg. 250, euro 17), potrebbe apparire come il ritratto dio un uomo solitario. Di un mediocre che lascia scorrere la sua giovinezza senza mai impegnarsi a darle un senso. Fino a quando, raggiunto il traguardo del posto fisso, decide di lasciarsi trasportare dal flusso della vita. Adeguandosi, senza troppe difficoltà, alle regole di un’esistenza piccolo borghese. Costruendo una microscopica famiglia con la prima ragazza che sembra apprezzare la sua presenza anonima. Limitandosi ad adottare la figlia di lei, Isabella, come se fosse sua. Non per amore, s’intende, ma perché così prevedono il codice di comportamento, non scritto, del suo status.

In realtà, Singer è molto di più. Non è soltanto l’ennesimo inetto, che sarebbe piaciuto tanto agli scrittori mitteleuropei. E non è neppure uno sbiadito parente dello scrivano Bartleby di Herman Melville, che si trincera dietro il reiterato  “avrei preferenza di no” senza mai dare una spiegazione, una giustificazione del suo sottrarsi ai richiami che la vita gli propone. No, il personaggio di Dag Solstad è un uomo che sa esplorare l’illusione di essere uno scrittore, senza mai lasciarsi corteggiare dalla depressione quando scopre che il suo talento è pura, immaginaria presunzione. E che non basta cullarsi, per anni, nell’illusione che una bella frase, creata e modificata, smontata e rimontata mille volte negli angusti spazi della propria maniacale supponenza, basti a costruire un capolavoro della letteratura.

Singer è un lavoratore che sa accontentarsi del ruolo oscuro di bibliotecario in un piccolo centro tra le montagne del Telemark. Un tipo, insomma, che non si lascia mai ipnotizzare dalle sirene di immeritate promozioni. Di inarrivabili compiti di responsabilità.

E anche quando la vita porta Singer a restare da solo con la figlia della sua non più amata Merete, lui si carica sulle spalle il peso di farla crescere, studiare. Di accompagnarla fino all’ingresso nel mondo degli adulti. Soprattutto per cancellare dai sospetti di parenti e amici una verità che soltanto lui conosce. Ovvero, che il rapporto con la moglie era finito da tempo. E che loro due si sarebbero separati a breve, se il Destino non avesse deciso in altra maniera.

Guardando il suo Singer costruire una vita in cui la solitudine, l’inettitudine, ma anche la quieta accettazione del proprio essere solo una piccola pedina nel gioco di cui lui non potrà mai cambiare le regole, Dag Solstad fa di questo romanzo un racconto memorabile, una riflessione profonda, su quanto possa essere facile non essere, piuttosto che essere. Ma, al tempo stesso, quanta tenacia, quanta silenziosa ribellione, quanta ottusa resistenza serva per sottrarsi alle seduzioni del mondo. Per sentirsi davvero diverso, mascherandosi tra i tanti uomini e donne tutti dannatamente uguali.

Abbiamo costruito una società che ci ha ingabbiati tutti in una ragnatela di regole immutabili. Che ci ha abituati a trovare una risposta a ogni nostra domanda. Ma quale rivolta, a tutto ciò, può essere più banale e dirompente del sottrarsi al gioco dei ruoli? Singer è in grado di indossare ogni abito che gli altri vogliano cucirgli addosso. Può nascondersi dietro ogni maschera con cui decida di coprirsi il volto. Tanto, saprà scivolare fuori da quella sciocca recita pochi istanti più tardi. Per continuare a essere solo lo sbiadito riflesso di se stesso.

<Alessandro Mezzena Lona<

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