Era un calzolaio romagnolo di Savignano sul Rubicone, senza dubbio, Mario Buda. E poi un anarchico. Sì, ma fino a che punto? Fino a trasformarsi in un terrorista. Nell’uomo che, in America, è associato all’idea di attentato. Visto che le macchine piene di esplosivo non le chiamano autobomba ma Boda’s Bomb. Nel vendicatore dei compagni Nicol Sacco e Bartolomeo Vanzetti, bruciati sulla sedia elettrica da innocenti, che finisce per fare una strage di persone altrettanto inermi e del tutto estranee alla gestione repressiva del Potere. Oppure ancora, con l’ennesima metamorfosi, nel delatore al soldo dell’Ovra, la polizia politica fascista, che si infiltra tra gli esuli antifascisti in Francia fingendo di styare dalla loro parte, per poi denunciarli.
Chi era, insomma, Mario Buda? O Mike Boda, secondo il suo, storpiato, nome americano. Come si sono potute perdere le tracce dell’uomo che ha fatto urlare gli Stati Uniti dal terrore e dalla rabbia? Perché l’attentato a Wal Street, il 16 settembre del 1920, cinque giorni dopo la scandalosa incriminazione d egli anarchici italiani Sacco e Vanzetti, non. solo uccise 33 persone e ne ferì altre 200, Ma venne considerato, per la prima volta, come un vero e proprio “atto di guerra”, secondo il titolo in prima pagina del “New York Times”, contro la democrazia a stelle e strisce.
Tutte queste domande hanno acceso l’interesse e la fantasia di uno scrittore. Quel Matteo Cavezzali, romagnolo di Ravenna, che già un paio d’anni fa aveva dato ottima prova del suo talento letterario mettendosi sulle tracce dell’enigma della morte di Raul Gardini. E debuttando con il romanzo “Icarus”, pubblicato da minimum fax e premiato con il Volponi Opera Prima. Un libro che, nella struttura, nello stile e nell’impasto di verità e finzione, documenti, testimonianze, libertà narrative, anticipava già la nuova opera: “Nero d’inferno”, pubblicata da Mondadori (pagg. 300, euro 19).
Romanzo, si diceva. Anche se sarebbe più giusto definirlo una “crónica”, come la intende lo scrittore messicano Juan Villoro: “Il punto d’incontro fra due economie, la fiction e il reportage”. Perché Matteo Cavezzali fa lil suo mestiere di scrittore, senza dubbio. Ricrea la realtà, a volte immagina, ipotizza, inventa, dove ce n’è bisogno. Ma non può evitare di basarsi su fonti, testimonianze, documenti d’archivio, articoli di giornale, per ricostruire il mistero della vita di Mario Buda.
Ed è proprio dall’inizio, che parte l’indagine dell’autore di Ravenna. Da quando il calzolaio romagnolo decide di abbandonare una vita piuttosto grama in Italia per andarsene oltre oceano. Per approdare a Ellis Island nel 1907. Scontrandosi subito con la diffidenza che accompagna gli italiani nel Nuovo Mondo. Imparando in fretta che nessuno è disposto a regalarti niente. Che quattro soldi te li porti a casa solo dopo esserti spaccato la schiena a forza di lavorare.
E poi, casa. Mica quella del suo paese. Una stamberga, che neanche i topi i ratti di fogna vengono a farti visita volentieri. E allora, come biasimare Mario Buda se, quando incontra l’anarchico Luigi Galleani, si infiamma in fretta all’idea che bisogna alzare la voce. Per diure basta allo sfruttamento dei lavoratori. Ai guadagni immorali dei padroni. E, soprattutto, al razzismo per nulla mascherato che segue gli italiani in America come un’ombra gonfia di odio e disprezzo.
Ecco, inizia da lì la sfida di un piccolo calzolaio alla grande America. Di giorno in fabbrica, di notte a vendere whisky illegalmente, Mike Boda diventa in fretta uno dei punti di riferimento del movimento anarchico. E quando il governo approva le prime leggi che vanno a penalizzare in maniera pesante gli immigrati, consentendo il loro rimpatrio forzato, e poi arresta e condanna a morte due innocenti come Sacco e Vanzetti, Mike Boda prende su di sé il peso della vendetta. E architetta l’attentato più devastante che l’America abbia mai conosciuto fino a quel momento. Ancora oggi, guardare le tre immagini pubblicate nelle ultime pagine di “Nero d’inferno”, che documentano la strage, non è facile.
Ma quand’è che un idealista, un uomo che lottava per gli sfruttati, i poveri, gli emarginati, si trasforma in un terrorista? E dove sta il confine che divide l’eroismo dalla sete di sangue? Matteo Cavezzali, attorno a questa domanda, e a una storia ancora oggi avvolta nel mistero (tanto che Mario Boda ha negato fino alla morte, avvenuta il primo giugno del 1963 nel suo paese Savignano sul Rubicone, la propria colpevolezza nell’attentato di Wall Street), costruisce un libro pieno di voci e di verità contraddittorie. Un reportage narrativo dove nessuno può dirsi innocente. Un viaggio nella memoria che diventa un gigantesco mosaico in cui le testimonianze degli amici e dei parenti, dei compagni di lotta e degli investigatori, delle fidanzate e dei nemici giurati di Mike Boda, si sovrappongono. Si contraddicono in continuazione. Tanto da tracciare un ritratto dei calzolaio multiforme e del tutto contraddittorio.
“L’uomo è nello stesso tempo il labirinto e il viandante che si perde”, ha scritto l’autore francese di aforismi Grégoire Lacroix, citato da Matteo Cavezzali in apertura del suo “Nero d’inferno”. Frase che sintetizza molto bene il destino di Mario Buda. Ribelle sognatore e assassino, implacabile censore dei potenti e meschino strumento della macchina repressiva. Tanto da concludere la sua vita in totale anonimato, riprendendo a fare il calzolaio. E seppellendo tutti i suoi segreti dietro un silenzio impenetrabile.
Ma il libro di Matteo Cavezzali è anche un ritratto preciso, implacabile, lucidissimo dei meccanismi della repressione e dell’emarginazione. Tanto che, a leggere certe pagine intrise di razzismi incrociati tra americani e italiani, tedeschi e francesi, cinesi e ispanici, viene da pensare al risorgere, nel nostro tempo, delle medesime feroci diffidenze nei confronti degli altri. Demonizzati con pregiudizi sempre validi, e sempre uguali: vengono a rubarci il lavoro, violentano le nostre donne, puzzano, rubano, vogliono imporci il loro dio, vivono dell’assistenza dello Stato. Così, il “Nero d’inferno” che racconta lo scrittore di Ravenna non è solo il colore delle scarpe preferito da Mike Boda. Ma è, soprattutto, il baratro scurissimo che si spalanca davanti a una società civile ogni volta che antepone i valori dell’egoismo, del guadagno e dello sfruttamento altrui a quelli della solidarietà, della giustizia, del rispetto reciproco.
<Alessandro Mezzena Lona<