Adesso è facile dire che “Le isole di Norman” è un un gran bel romanzo. Visto che Veronica Galletta, dopo cinque anni di attesa, ha trovato un editore pronto a credere in lei. E neanche un mese dopo l’uscita del suo libro di debutto ha vinto il Premio Campiello Opera Prima. Annunciato dal presidente della Giuria dei Letterati, Paolo Mieli, nel corso di una diretta televisiva su RaiCinque.
Quello che non è facile capire è come un romanzo di tale qualità abbia dovuto aspettare cinque anni per arrivare nelle librerie. Visto che nel 2015, la giuria del Premio Calvino lo aveva selezionato tra i finalisti. Spendendo parole sulla sua autrice, Veronica Galletta, davvero lusinghiere. Ma forse “Le isole di Norman”, pubblicato da Italo Svevo nella collana Incursioni a cura di Dario De Cristofaro (pagg. 296, euro 18), non rientrava in quella schiera di libri che sembrano pensati e realizzati tutti dallo stesso autore. E che, secondo certi editori, vanno incontro ai gusti dei lettori. Anche se i dati di vendita, poi, non danno loro sempre ragione.
Sì, è vero, “Le isole di Norman” è un romanzo del tutto fuori dagli schemi. Imprevedibile, sognante, ma anche capace di porre numerose domande. Originale nella sua struttura narrativa, per l’uso di una lingua ricca e stratificata, per i riferimenti letterari alla migliore tradizione italiana del racconto popolare. Per quel coraggio di affrontare gli inganni della memoria, le trappole dei ricordi, la sconfinata solitudine di chi vive in una famiglia che non guarda in faccia la propria precarietà.
Veronica Galletta, siciliana di Siracusa che vive a Livorno, si è laureata in Ingegneria e ha iniziato a scrivere abbastanza tardi, racconta la straniante vita di una giovane studentessa di Ortigia. Elena ha alle spalle una storia di sofferenza, che le ha segnato il corpo con ferite profonde. E ha lasciato nell’anima i solchi di un dolore che la costringe a inventarsi strani esorcismi. Lei disegna mappe. Appiattisce la realtà tridimensionale su un foglio di carta. E quando sua madre scompare, dopo lunghi silenzi e giornate interminabili trascorse chiusa in stanza, lei si trova a dividere il proprio tempo con un padre che ha assistito al dissolversi inesorabile del sogno comunista. E che non vuole prendere seriamente in considerazione il diabete che lo sta consumando.
Quando la madre sparisce, Elena decide di andarla a cercare. Batte le strade di Ortigia palmo a palmo. Lascia nei luoghi più significativi una delle amate mappe insieme a un libro. Come se quei simboli del suo mondo potessero rimettere sulla strada giusta la donna che se n’è andata senza nemmeno lasciarle una riga di saluto. Sarà nell’isola splendente dove si rifugiò, secondo la leggenda, la ninfa Aretusa in fuga dal fiume Alfeo, che la studentessa dovrà confrontarsi con i silenzi e le bugie, con i ricordi ingannevoli e le delusioni. Con personaggi che sembrano presi dal grande patrimonio delle fiabe siciliane. Ma che, al tempo stesso, vivono tutte le contraddizioni dell’inizio degli anni Novanta.
Elena, soprattutto, dovrà trovare il coraggio di fare una domanda. Quella a cui è sfuggita sempre, fino a quando è scomparsa sua madre.
“In questi cinque anni non ho ritoccato il romanzo più di tanto – racconta Veronica Galletta – che confessa di vivere la vittoria del Campiello Opera Prima come se fosse un sogno -. Subito dopo essere entrata in finale al Premio Calvino ho provato a rifare soprattutto le parti del racconto in cui ci sono alcune concatenazioni tra i diversi capitoli. E, in effetti, il testo veniva più asciutto. Poi ho aggiunto ‘Lenticchie’ e rifatto i dialoghi di ‘Castello Maniace’. Per il resto è rimasto uguale. Fermo lì per cinque anni”.
Perché è rimasto lì per tanto tempo, non pubblicato?
“Nessuno lo voleva. Mi rendevo conto che, forse, poteva sembrare un romanzo complesso. Con tanti simboli, molti riferimenti ai luoghi, continui cambi di ritmo nel passaggio tra presente e passato. Ma non sapevo che cosa delle ‘Isole di Norman’ avrei potuto modificare. E come. Mi sembrava impossibile riuscirci da sola. Per fortuna, dico adesso, perché forse l’avrei rovinato”.
Cinque anni di rifiuti sono duri da digerire?
“Sì, anche se nel frattempo ho fatto altre cose. Dedicandomi anche alla scrittura, lavorando a nuove idee. Però, certo, mi sono fatta tante domande. Pensavo di avere compiuto l’errore classico degli esordienti, che vogliono riempire il primo romanzo con mille storie. Mi dicevo che, magari, da quel libro se ne potevano tirare fuori due. Perché a me non mancano le suggestioni. E, a volte, devo stare attenta a non eccedere”.
Da dove è partita?
“Per prima ho scritto la storia di Elena bambina. Il suo incidente con l’acqua bollente e quel doversi confrontare sempre con delle cicatrici indelebili. Poi è arrivata la parte di Elena ragazza, del rapporto con il padre e la madre. E la storia delle mappe, a cui lei si aggrappa in maniera nevrotica. Scegliere Ortigia, per ambientare il romanzo, è stato naturale, visto che la conosco bene”.
E quando le hanno detto che Italo Svevo lo voleva pubblicare?
“È stato bellissimo confrontarmi con un editor. Mi ha detto subito: ‘Prima di tutto lo rileggi per intero. Poi fai tutte le modifiche che ritieni necessarie, senza combinare guai. E poi me lo restituisci’. Però continuavo a rimandare l’inizio della revisione. Come chi deve mettersi a dieta. Ogni giorno trovavo una scusa per non iniziare il mio lavoro”.
È stato bello rileggersi?
“Bello è stato riconoscermi in quello che avevo scritto quasi sei anni prima. E, poi, ho tolto alcune parti in cui mi sembrava di allungarmi troppo. E ho eliminato anche un personaggio superfluo. Bello è stato anche lavorare con un lettore di professione, che non conoscevo. Lui mi ha convinta a tendergli la mano, a invitarlo a entrare nella storia delle ‘Isole di Norman’. E con lui ho colto alcuni dettagli che non riuscivo a collegare. Per esempio, le strisce dei piccoli cinghiali, che Elena vedrà una notte dalla macchina dei suoi genitori, richiamano quelle del gatto che compare in ‘Castello Maniace’. In qualche modo, lui ha capito questa storia più di me che l’ho inventata”.
Facile scegliere Ortigia come palcoscenico della storia?
“La prima scelta è stata quella di ambientare il romanzo in un momento preciso: gli anni tra il 1991 e il 1992. Prima che ci fosse il boom turistico di Ortigia. E prima anche della strage di Capaci, che rappresenta una linea di demarcazione. Ortigia l’ho scelta non solo perché io sono nata a Siracusa, ma anche perché potevo reinventarla nella memoria. Per esempio, attraverso i racconti di mia madre, nata proprio lì. Ho deciso, però, di non verificare la veridicità di quello che racconto. Perché l’isola del libro è come io la immagino vivendo lontana, Trasformata, ricreata dalla fantasia che regge la storia. Adesso, quando ci vado, mi capita di stupirmi se la trovo diversa da come l’ho descritto io”.
Quanto dei grandi scrittori siciliani c’è nel suo immaginario?
“I libri di Leonardo Sciascia, tutti, li ho letti dopo aver finito il mio romanzo. Sono molto attaccata a Gesualdo Bufalino, che ho scoperto tardissimo, ma che amo per la sua capacità di portare il lettore su traiettorie del tutto imprevedibili. Mi vengono in mente anche certo racconti di Vincenzo Consolo raccolti nelle ‘Pietre di Pantalica’, o ‘Conversazione in Sicilia’ di Elio Vittorini, o ‘Il bell’Antonio’ di Vitaliano Brancati. Ecco, da tutti questi grandi scrittori credo si possa imparare una certa maestria nel ‘cunto’. Che poi ritroviamo nelle ‘Fiabe italiane’ di Italo Calvino, che si aprono proprio con quelle della Sicilia. Le conosco molto bene, me le leggevano quand’ero bambina”.
Nelle “Isole di Norman” bisogna lasciarsi trasportare dall’incertezza sulla reale esistenza di certi personaggi, sulla possibilità di documentare i fatti?
“Sì, bisogna accettare di non capire fino in fondo chi esiste e chi non esiste. In fondo, questo è anche un romanzo sugli inganni della memoria. E Lucia Ria rappresenta il simbolo di quanto i ricordi siano, molte volte, un tranello. Perché il suo personaggio, che rimane sempre evanescente, potrebbe essere un simbolo. O l’amica immaginaria della filastrocca di Robert Louis Stevenson, che amo molto”.
Lucia Ria da dove arriva?
“Quello della memoria è un mio rovello. Perché i ricordi assomigliano a un colabrodo. Mi era capitato di ritrovare un quaderno, del periodo delle scuole elementari, e di leggere un mio racconto su una bambina che definivo la migliore amica. Ma io non ricordo assolutamente se esistesse davvero, o meno. Ho cercato informazioni su di lei, senza trovare nulla. Ecco, lo spunto per fare spazio a Lucia Ria nella storia è partito da lì. E già nome e cognome hanno un sapore preciso: Lucia deriva da luce, mentre Ria è il concentrato della cattiveria”.
Le mappe a cui Elena si aggrappa per fronteggiare il mondo sono un esorcismo laico?
“Un esorcismo, un gesto scaramantico e un tentativo di combattere la complessità, la tridimensionalità delle cose, facendo diventare piatta la realtà. Per renderla più abbordabile. Elena smetterà di creare le sue mappe solo quando capirà che è inutile. Perché si rischia di deformare ancor di più il vissuto. Nel dolore di veder sparire sua madre, protagonista assoluta con le sue assenze, la mia studentessa scoprirà anche la certezza che la sua vita, e quella del padre, per la prima volta stanno imboccando una strada più semplice. Più felice”.
Animali, gatti, sono una presenza forte nel suo romanzo. Perché?
“Alcuni spunti sono reali. In Sicilia c’è un problema con gli animali, che ha raccontato molto bene Giorgio Vasta nel suo libro ‘Il tempo materiale’. Per la violenza verso i gatti neri, per l’abbandono dei cani che finiscono a formare veri branco. A Ortigia, poi, la loro presenza è importante. I gatti, con il loro silenzio, parlano moltissimo”.
Lei si è laureata in Ingegneria. E la scrittura, i libri?
“Ho iniziato ad amare i libri da bambina. Leggevo moltissimo, già da sei anni. In maniera famelica, senza trascurare nessun autore. A scuola andavo bene quasi in tutte le materie. Però Ingegneria mi sembrava una facoltà molto impegnativa. E io avevo bisogno di qualcosa che mi avvolgesse completamente. Quei cinque anni di studio sono stati un’immersione totale. Poi è arrivato il dottorato, il primo lavoro interessante. Il desiderio di scrivere i primi tentativi? Solo dopo i miei 40 anni”.
Quanto le manca la Sicilia a Livorno?
“Mi trovo molto bene, adesso , a Livorno. Perché è una città molto discreta, dove puoi trovare persone che ti saranno amiche senza invadere la tua sfera privata. Alla Sicilia non ci penso mai. Altrimenti mi viene voglia di saltare sul primo aereo e andare lì. Ci sono tanti posti che amo, non solo Ortigia”.
<Alessandro Mezzena Lona<