• 02/11/2022

Magris e Di Paolo, “Inventarsi una vita” fatta di parole e storie

Magris e Di Paolo, “Inventarsi una vita” fatta di parole e storie

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Claudio Magris è come la sua scrittura: un vulcano di suggestioni, un catalogo infinito di citazioni e rimandi letterari, un cantastorie che sa dare forma ai ricordi non temendo mai di lasciarsi trascinare dalla pura gioia o dalla malinconia tentatrice. E questo suo essere aperto alle contaminazioni, meticcio, conscio della difficoltà di inquadrare la vita in rigidi schemi, esattamente come i saggi, i romanzi, gli articoli che pubblica, lo fa essere uno degli scrittori più difficili da intervistare. E, al tempo stesso, più affascinanti da ascoltare. Quando, davanti a una serie di domande, riesce ad alternare con grande facilità e naturalezza temi alti e argomenti pop. Commenti meditati sulla funzione della letteratura e frammenti di tempo trascorso spesso paradigmatici, folgoranti, ma anche buffi e del tutto fuori dagli schemi, che può recuperare dall’archivio di una memoria prodigiosa.

Chiacchierando con Claudio Magris può capitare, allora, di seguirlo in raffinati ragionamenti che partono dalle parole di Mark Twain: “Truth is stranger than fiction”, la verità è più strana della finzione. O seguire il suo ragionamento attorno ai “capolavori falliti del Novecento”, con cui Raffaele La Capria indicava tutti i grandi romanzi che per dire “la verità del proprio tempo” hanno trovato il coraggio di “rischiare il fallimento”, assumendolo nella propria stessa struttura magari per poi “affondare con il gorgo”. Ma capita anche di seguirlo ripercorrere i passi perduti degli anni dell’apprendistato letterario, della sfida alla scrittura quando, giovane laureando, aveva trovato il coraggio di scrivere una tesi su quello che sarebbe poi diventato il suo primo, acclamato saggio: “Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna”.

Ma chi vuole conoscere per davvero Claudio Magris non può evitare di seguirlo lungo traiettorie laterali, sghembe, che soltanto in un secondo tempo rivelano la loro meta. Quelle, insomma, che lo portano a riandare con la memoria agli anni della sua formazione di uomo, di germanista, di scrittore, di intellettuale dalle letture sterminate.

Ed è proprio seguendo questo multiforme registro di racconto, alto e al tempo stesso pronto a ragionare sui retroscena della vita che portano gli autori a scrivere i libri, che è nato “Inventarsi una vita”, il dialogo tra Paolo Di Paolo e Claudio Magris pubblicato da La nave di Teseo (pagg.189, euro 15). Non il solito libro-intervista, ma uno scambio di riflessioni, di epifanie, di commenti sul senso della letteratura e della vita, sulla velocità dei mutamenti a cui stiamo assistendo noi abitanti del terzo millennio e sull’impossibilità di “disattivare la Storia”. Perché, il rapporto tra la Storia e il raccontare storie è indissolubile. Come diceva Norman Mailer, “History as fiction, fiction as history”. E poi, il libro procede senza mai trascurare i testi pubblicati dai due dialoganti e i capolavori di tantissimi altri autori. Diventando, pagina dopo pagina, una piccola, personalissima summa del divenire della cultura moderna.

Per Paolo Di Paolo, il dialogo in forma di libro è diventato uno strumento prezioso per conoscere più da vicino gli scrittori amati. Lui, che è stato finalista al Premio Campiello Giovani e allo Strega con “Mandami tanta vita”, che ha pubblicato romanzi apprezzati come “Una storia quasi solo d’amore” e “Lontano dagli occhi”, negli ultimi vent’anni ha ascoltato le voci di Antonio Debenedetti (“Un piccolo grande Novecento”, 2005), Dacia Maraini (“Ho sognato una stazione”, 2005), Raffaele La Capria (“Risalire il vento”, 2008), “Elio Pecora (“Queste voci queste stanze”, 2008). Claudio Magris, germanista e saggista, docente universitario e narratore, premiato con lo Strega e il Principe de Asturias, oltre ad altri importantissimi riconoscimenti internazionali, autore di libri preziosi come “Un altro mare” e “Danubio”, “Microcosmi” e “Non luogo a procedere”, ha trovato nel trentanovenne autore romano l’interlocutore perfetto. Capace di non banalizzare mai le domande. Ma attento, al tempo stesso, a non lasciarsi sfuggire l’occasione di entrare nel mondo più intimo dello scrittore triestino ogni volta che la conversazione lasciava spazio al vissuto. All’amicizia, all’amore, al tempo trascorso a cercare di capire quel mondo che sta al di là della pagina scritta. E che nessun autore può far finta di non frequentare.

Claudio Magris non nega di essere stato fortunato: “Gli anni della mia vita mi hanno preservato dall’essere trascinato in guerra”. Eppure non può nascondere il fatto che “negli ultimi anni di questa vita si ha l’impressione di essere quasi di un’altra specie”. Visto che, chi deve fare i conti con lo scorrere inesorabile del tempo, con l’invasiva presenza delle tecnologie nella vita quotidiana, ha l’impressione di “trovarsi in un altro pianeta in cui vigono altre leggi, quasi altre leggi fisiche, che fanno sentire spaesati”. Probabilmente perché “è cambiato il senso della contemporaneità. di ciò che ci è contemporaneo, perché tendiamo a sentirlo subito come già passato”. Eppure, illudersi “di disattivare la Storia sarebbe come voler arrestare una corrente impetuosa, una forza inarginabile”. E, allora, lo scrittore triestino individua nei libri di Paolo Di Paolo la capacità di mettere un argine a a quella che Hegel chiamava “la furia del dileguare”, che domina sempre più la nostra vita, “il modo di sentirla e di raccontarla”. Ma lui stesso ammette di avere scritto “per lottare contro l’oblio, nel desiderio – forse patetico ma appassionato – di fermare, di salvare le cose e soprattutto i volti amati dall’abrasione del tempo, dallo morte”.

Ecco, allora, che scrivere assume la funzione “di costruire un’arca di Noè per salvare tutto ciò che si ama”. Desiderio “vano e impossibile, donchisciottesco ma inestirpabile”. Senza mai dimenticare che è “più facile inventare la vita che raccontarla” e che la scrittura è spesso “portatrice di ferite”, anche se molti grandi protagonisti della Storia devono essere grati a chi ha registrato e tramandato le loro parole. Altrimenti il messaggio che portavano con sé sarebbe andato perduto.

Nel dialogo quieto, profondo, eppure pieno di esplosive suggestioni, tra Paolo Di Paolo e Claudio Magris (“mi chiedo spesso che cosa sia questo vissuto, se e quali siano i suoi limiti, la sua sostanza sulle cose da dire. e sulle cose da non dire, certe epifanie fondamentali per chi le vive ma prive di significato per tutti gli altri”), si affacciano i momenti difficili incontrati sulla via dell’esistere (“una sola volta ho parlato di una vera e propria notte che avevo attraversato, del rischio reale di perdermi, di negarmi, di una grande dolorosa e indecente paura”),  e al tempo stesso si palesa la necessità di seguire la via della “persuasione” indicata dal filosofo goriziano Carlo Michelstaedter: “La capacità di vivere l’attimo, ogni attimo, senza sacrificarlo al futuro, senza annientarlo nei progetti e nei programmi, senza considerarlo semplicemente un momento da far passare presto per raggiungere qualcos’altro”.

Le parole hanno un valore preciso, non vanno usate a caso. E se Italo Calvino, una volta, confidò di avere tre tavoli diversi su cui scrivere, alternativamente, articoli, interventi critici, politici, e editoriali, opere di letteratura, Claudio Magris ricorda che uno scrittore può avere “una sintassi e uno stile diversi”. Pur mantenendo una necessaria identità “o almeno una corrispondenza tra il cosa e il come”. Può albergare dentro di sé, sottolinea Paolo Di Paolo, quella che Truman Capote in “Musica per camaleonti” definiva una “tastiera stilistica”. Sensazione che lo scrittore triestino ha provato spesso tanto da fargli affermare che “molto spesso è come se, scrivendo un romanzo, componessi un mosaico”.

Convinto che i grandi scrittori “si distinguono soprattutto per non essersi lasciati condizionare, nella loro rappresentazione e nel loro racconto della vita, dalle loro pur profonde convinzioni ideologiche”, Claudio Magris mette in guardia tutti gli innamorati della letteratura dall’idolatrare glki autori che amano. Perché “ogni feticismo e mortale, anche quello che appartiene a personalità che hanno conosciuto e creato la grandezza”. E, allora, anche questo dialogo assume la pensosa, eppure leggera e affascinante dimensione di “un conversare divagante su tutto ciò che sta attorno alle parole scritte”, dice Paolo Di Paolo. Dove l’autore triestino si lascia trasportare anche dai ricordi del suo esame di maturità al Liceo Classico “Dante” di Trieste, dove presidente di commissione era il grande Giovanni Getto; dello zio che, mentre preparava l’albero di Natale, indossava un paio d’ali da angelo: del ruolo fondamentale dell’amata Marisa Madieri, quando leggeva i suoi testi con inflessibile attenzione; della cugina Viviana, un esempio di forza d’animo e di attaccamento alla vita anche quando il suo tempo era ormai scaduto; dell’amico di sempre, l’avvocato Giovanni Gabrielli, capace di scherzare anche nei momenti più dolorosi della malattia; del cane Jackson, “che nella mia vita non ha contato meno di Foscolo”; del mare amatissimo, da cui lo scrittore non può nemmeno pensare di vivere lontano.

E se “la realtà fa una concorrenza sleale alla letteratura”, non deve stupire che una scrittrice spagnola abbia trasformato Claudio Magris in uno dei personaggi del suo romanzo di debutto. Pur senza averlo mai incontrato, Natàlia Romaní ha portato il germanista triestino al centro de “Il tempo della nostalgia”, tradotto da Sara Cavarero per Salani (pagg. 414, euro 19). Trasformandolo nello spirito guida della protagonista in un viaggio attraverso i Balcani alla ricerca del senso sfuggente del nostro tempo, sulle tracce di un’identità sempre più difficile da indossare, mentre l’amore e il disamore restano l’ago della bilancia dell’esistenza.

Ma non basta, perché Garzanti ha distribuito da poco nelle librerie un volumone con le “Traduzioni teatrali” curate da Claudio Magris (pagg. 689, euro 32). Dove il germanista e scrittore ha ricreato nella lingua italiana alcuni testi, da lui molto amati, di autori fondamentali nel suo percorso culturale e letterario: Henrik Ibsen, Arthur Schnitzler, Poly Henrion, Georg Büchner e Franz Grillparzer. Ben conscio che al traduttore spetta il non facile ruolo di essere al tempo stesso co-autore e vivisezionatore degli scritti altrui. Un po’ complice e un po’ rivale. Certosino riproduttore, con parole diverse, e raffinato traditore.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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