Al secondo tentativo, Federica M;anzon ha vinto il Premio Campiello. Tredici anni dopo quel secondo posto conquistato con il romanzo “Di fama e di sventura” (Mondadori), la scrittrice e editor di Guanda, nata a Pordenone, ha convinto una buona parte della giuria popolare di 300 lettori a votare il suo nuovo lavoro “Alma” (Feltrinelli). Centouno i voti da lei collezionati alla fine della serata officiata al Teatro La Fenice di Venezia, contro i 78 di Antonio Franchini e del suo “Fuoco che ti porti dentro” (Marsilio), i 66 del Premio Strega Emanuele Trevi con “La casa del mago” (Ponte alle Grazie), i 33 di Michele Mari con “Locus Desperatus” (Einaudi) e i 6 raggranellati da Vanni Santoni con “Dilaga ovunque” (Laterza)
Su 300 giurati popolari del Premio Campiello, hanno votato in 287. Il 95 per cento. Una percentuale molto alta. E, lla fine, i tre scrittori dtai perr fvoriti fin da maggio si sono contesi la vittoria in una delle più belle sfide viste negli ultimi nni a Venezia.
La serata finale del Premio Campiello condotta per il terzo anno da Francesca Fialdini, affiancata dal cantante e attore Lodo Guenzi con la partecipazione del vincitore del Festival di Sanremo 1992 Luca Barbarossa, che non poteva non riproporre la sua canzone più fortunata “Portami a ballare”, ha portato sul palcoscenico della Fenice anche l’ex Pfm Franco Mussida. In una serata che, purtroppo, sempre più ha relegato i libri e gli scrittori in un angolino per dedicare gran parte dello spazio a chiacchiere, canzoni, interventi un po’ stralunati di Lodo Guenzi, che a tratti non si capisce bene che cosa voglia esattamente dire con i suoi monologhi sospesi tra il divertito e il pensoso.
Dopo “Il bosco del confine”, pubblicato da Aboca, Federica Manzon h voluto ritornare sulla frontiera, sui sanguinosi tormenti che ha vissuto sul finire del ‘900 l’ex utopia socialista della Jugoslavia. Con il suo nuovo romanzo “Alma” (Feltrinelli) ha costruito una storia di amore e disamore, ambientata a Trieste, di passioni politiche e illusioni deluse, di rivoluzioni importanti nel mondo della sanità come quella portata avanti con coraggio da Franco Basaglia. “Alma è nata a Trieste, una città che a lungo è stata affacciata sul confine – ha raccontato Federica Manzon -. Non sempre, in quelle terre, si è convissuto in maniera pacifica. Perché quando mondi diversi stanno insieme, finiscono per scontrarsi. Per arrivare al conflitto. Anche se, quello stesso mondo, si nutre di una curiosità che non si placa mai. C’è stato un tempo in cui nessuno ti chiedeva di che etnia fossi. Poi la politica ha diffuso la diffidenza verso l’altro. Quando la Croazia, appena uscita dalla Repubblica di Jugoslavia, distribuì un questionario per invitare le persone a definirsi, molti per protesta avevano scritto: eschimese”.
La protagonista di “Il fuoco che ti porti dentro” (Marsilio) se dovesse avere bisogno di uno slogan, per definirsi, potrebbe adottare tranquillamente quello che recita: “Di mamma ce n’è una sola, per fortuna”. Antonio Franchini è convinto, infatti, che “solo uno scrittore può mettersi a una distanza di sicurezza da un madre come la mia Angela. Un personaggio eccezionale, non solo la donna con cui avevo battagliato per tutta la vita. Chi veniva a casa nostra si divertiva molto con lei, perché provocava con frasi estreme, ancheggiava, diceva battute che facevano ridere. Allora, ho pensato che scrivendo questo romanzo, in qualche modo avrei potuto invitare i lettori a conoscerla. Non solo nel suo lato divertente, ma anche in quello più duro, più terribile”.
Emanuele Trevi, ne “La casa del mago” (Ponte alle Grazie), non ha voluto creare soltanto un libro che volesse ricostruire la figura di suo padre Mario, grande psicanalista. “Il rapporto tra lui e i suoi pazienti rimane un mistero. Per questo, quando ero bambino, non riuscivo a comprendere esattamente che mestiere facesse lui. Era troppo difficile da capire. Allora, preferivo pensare che fosse un mago. Poi, da adulto, a un certo punto ho deciso di andare a vivere nella sua casa, quando lui non c’era più. E lì ho voluto ricostruire la sua vita, i silenzi, tutto quello che mi era sfuggito, mentre finivo per raccontare anche me”.
Con “Dilaga ovunque” (Laterza), Vanni Santoni ha voluto portare al centro del suo romanzo la storia degli artisti di graffiti. “All’inizio erano stati accusati di vandalismo. Adesso gli artisti più bravi li ritroviamo nelle migliori gallerie d’arte. La scritta sul muro è sempre stata l’ultima forma di espressione degli oppressi. Accadeva, per esempio, durante la dittatura di Pinochet. Anche se, poi, nel mio romanzo questo gesto di libertà assoluta deve fare i conti con il mercato. Con la normalizzazione di una creatività di protesta. Di chi scrive il proprio nome sui muri e lo trasformava in un gesto d’arte”.
“Locus Desperatus” (Einaudi) di Michele Mari parte da un evento che mette inquietudine al protagonista: ogni giorno sulla sua porta di casa appare una croce disegnata con i gessetti. A lungo andare scoprirà che qualcuno vuole attuare uno scambio: lui dovrà abbandonare non solo il proprio appartamento, ma anche l’identità stessa che ha indossato fino a quel momento. “Succede spesso che si abbia paura della vita, che si provi diffidenza nei confronti del prossimo – ha spiegato lo scrittore, che nel 2014 era già in finale al Premio Campiello con il romanzo ‘Roderick Duddle’ -. L’unica via di salvezza è mettere la propria anima nella generosità delle cose, sperando che nel tempo quelle stesse cose siano garanti e custodi della tua anima”.
Il Campiello Opera Prima, quest’anno, ha premiato un’autrice originale, un editore coraggioso: Fiammetta Palpati con “La casa delle orfane bianche” (Laurana). Racconta il percorso di tre donne che decidono di andare a vivere, insieme alle rispettive madri, in una casa di paese. Ma quel sogno di condivisione e libertà si rivelerà presto una fucina di egoismi e incomprensioni.
Il Premio Campiello alla carriera è andato al triestino Paolo Rumiz, uno scrittore che con i suoi libri ha voluto sempre valicare i muri alzati tra etnie, culture e religioni di territori sparsi nell’Europa.”C’è stato un momento della mia vita in cui avevo perso la voglia di scrivere. Temevo che l’editoria volesse puntare solo a vendere libri. E che le mie parole non servissero a fermare la violenza, l’esclusione, le armi. Poi, ho deciso di andare a vivere in campagna. Ho ritrovato il mio rapporto con la terra. E un giorno, una vecchia contadina mi ha detto che se il suo compito era quello di coltivare patate, il mio era quello di coltivare parole. Per lei, le parole avevano un valore nutritivo almeno pari alle sue patate. Questo è stato un premio, che mi ha restituito la voglia di fare il mio lavoro: di scrivere”.
Infine, il Campiello Giovani è andato a Cristina Arnoldi, una diciannovenne di Dalmine. Che ha conquistato i giuirati con il suo racconto “Appena prima dell’ultimo accordo”. Una storia nata durante un viaggio di ritorno in pullman dal Monte Cengio sull’Altipiano di Asiago. “Un luogo che conserva i ricordi della Grande Guerra – ha spiegato -. La mia scrittura è anche un modo per far capire a tutti che le guerre si assomigliano, che fanno schifo tutte allo stesso modo”.
<Alessandro Mezzena Lona