Pochi scrittori hanno il coraggio di rileggere i propri romanzi quando sono pubblicati. Joyce Carol Oates non è tra loro. Anzi, la grande autrice americana di Lockport, da anni candidata al Nobel per la letteratura, confessa candidamente di aver desiderato rimettere mano al suo “Paese delle meraviglie” pochissimo tempo dopo l’arrivo nelle librerie. Perché, pensando e ripensando alla storia, si era convinta che il finale fosse completamente sbagliato. Normale, allora, immaginare una successiva versione. Una revisione che mettesse in fuga almeno un po’ di quel senso di malinconia che si impadronisce sempre della scrittrice ogni volta che si deve distaccare da un suo libro. Malinconia affine, come spiega lei stessa, “a quella che ci prende quando, per l’inesorabile processo del tempo, ci troviamo scacciati per sempre da casa”.
E, allora, non deve stupire se romanzi scritti da Joyce Carol Oates negli anni Sessanta e Settanta finiscono per non invecchiare mai. Dal momento che l’autrice di “Acqua nera”, “Blonde”, “Una famiglia americana”, “Zombie”, non considera mai un suo libro definitivo. Anzi, è disposta a riprenderlo, a modificarlo, ad aggiustare la sua traiettoria se in qualche passaggio non la convince più. Spesso, questi piccoli interventi di restauro intelligente riconsegnano nelle mani del lettori vecchi capolavori che possono mettere in mostra una sorprendente modernità.
Il caso più sorprendente di restyling narrativo è legato a quella che è stata battezzata come “Epopea americana”. Tre romanzi, più uno, scritti e pubblicato dalla Oates tra gli anni Sessanta e i Settanta, e riportati a nuova vita sul finire dei Novanta. In Italia, la casa editrice il Saggiatore ne aveva proposti due già prima dell’estate scorsa. Adesso, a completare la saga aperta da “Il giardino delle delizie” e “I ricchi”, arrivano “Loro” tradotto da Bruno Oddera (pagg. 653, euro 23) e “Il paese delle meraviglie” tradotto da Alessandro D’Onofrio, Giulia Poerio e Alessandro Viezzoli (pagg. 651, pagg. 23).
Convinta che il sogno americano sia stato partorito nella casa degli incubi, Joyce Carol Oates sa cercare il vero volto del suo Paese dentro storie che non regalano illusioni. Che non provano ad addolcire la spietata, brutale realtà di un gigantesco luna park dove i giochi più fantasmagorici, i sorrisi più esagerati, servono soltanto a mascherare il baratro profondo che si spalanca appena oltre la soglia della finzione.
Così “Il giardino delle delizie” segue passo passo il sogno di ribellione di Clara, la figlia di due contadini senza terra e senza casa. Una prigioniera della povertà e della noia che si costringe a vagheggiare un futuro luminosissimo. E ci riesce ad allungare le mani sul mucchio, a fare suo Revere, un facoltoso uomo sposato che per lei andrebbe a prendere la luna. Fino a quando, però, vede vacillare il suo castello di illusioni tra le mani rapaci di suo figlio Swan. Ne “I ricchi” la scalata al successo di quella bambolina dall’incarnato di porcellana che è Tashya vacilla molto presto quando sposa l’ombroso Richard. Un uomo incapace di vivere le proprie scelte, e che invece preferisce sentirsi un personaggio, un burattino senza fili preso di peso dai romanzi di successo che lei va pubblicando.
Ad alzare il sipario su “Loro” è un colpo di pistola. Quello che ferma la vita del losco Bernie Malin, e che spinge la sua giovane amante Loretta a scappare con il figlio illegittimo di quel rapporto sbagliato nel suo ventre. Non sarà facile provare a costruire un futuro al fianco di un vecchio poliziotto all’America degli anni Trenta, che sente rullare non troppo lontani i tamburi della Seconda guerra mondiale. Negli occhi della Oates, Detroit assume i connotati di Babilonia, tra prostitute, faccendieri e gangster, incontri torbidi e stupri. E un mondo politico corrotto, ma non disposto a smettere di aggrapparsi al feticcio del sogno americano. Pur sapendo che, dietro quella maschera dal sorriso prestampato, si cela una realtà terrificante. Impossibile da raddrizzare.
Degna conclusione della quadrilogia americana, “Il paese delle meraviglie” sciorina sotto gli occhi di chi legge tutti i colori del buio. Fin dalle prime pagine del fluviale romanzo, quando il piccolo Jesse scopre che nel bagagliaio dell’auto di papà non ci sono regali di Natale. Ma carne sanguinolenta, che puzza di morte. Riuscirà, il bambino, a scampare al massacro della propria famiglia, ma al di là del buio della notte che lo inghiotte e lo porta in salvo lo aspetta un destino pieno di imprevisti. Un labirinto dove, a ogni biforcazione, sarà costretto a scegliere tra il percorso che conduce verso una transitoria tranquillità e la dannazione.
Maestra nel raccontare storie che nascondono un fondo segreto, tutto da esplorare, affascinata da quella che chiama “fantasmagoria della personalità”, ovvero gli infiniti misteri che si celano dentro ogni persona, Joyce Carol Oates si regala proprio sul finire di questa “Epopea americana”, una straniante istantanea narrativa. Quando il piccolo Jesse, sconvolto dalla scoperta di avere come padre un assassino, si ferma ad osservare di nascosto una giovane famiglia che sembra divertirsi molto su un’altalena verde in una fattoria qualunque. Tra il padre Frederic Oates e la madre Carolina è seduta la loro figlia di tre anni. Si chiama Joyce, come la scrittrice. È l’alter ego narrativo della Oates, un raggio di luce dentro il buio profondo della storia che sta prendendo forma tra le pagine.
Ma, in fondo, sta proprio lì il fascino irresistibile della letteratura. In quella meravigliosa possibilità di avvicinare i confini della finzione e della realtà. Perché mai nessun personaggio di carta può illudersi di camminare con le proprie gambe se dietro al lui, nel mondo, qualcuno non lo ho sognato a lungo. Chiamato, desiderato, riempito di lampi di luce e lunghi momento di oscurità. Eterno golem, che presto riesce a camminare senza più bisogno di essere risvegliato dal proprio creatore.
<Alessandro Mezzena Lona