• 13/12/2017

David Szalay, la vita istruzioni per l’uso

David Szalay, la vita istruzioni per l’uso

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In fondo, il mistero della vita è tutto chiuso dentro un’idea. Ovvero, che ci sia dentro il trascorrere del nostro tempo, nel ripetersi di gesti e parole, di paure e sogni, uno spazio vuoto. Inconoscibile. Un segreto impalpabile che non comprenderemo mai, che continuerà a sfuggirci fino alla fine. E, allora, siamo costretti a inventarci sempre nuovi esorcismi. Riti di passaggio, divinità usa-e-getta, certezze dai piedi d’argilla, per non farci travolgere dalla tristezza, dall’angoscia. Dalla consapevolezza che consumeremo i nostri giorni senza mai arrivare a infrangere il muro posto, come un confine invalicabile, tra noi e le risposte tanto a lungo cercate. Invocate.

Ma, forse, c’è solo un modo per abitare quel vuoto. Per fare in modo che l’inconoscibile ci sia un po’ più familiare. Ed è quello di spalancare gli occhi sulla vita. Di scrutare attentamente ogni minimo gesto, ogni parola in apparenza superflua. Ogni intermittenza del nostro essere, che ci concede nello scorrere del tempo soltanto poche, minime variazioni. Per trasformare l’esorcismo in racconto. Per dare alla formula scaramantica, al rito privo di significato, il sapore forte, acre, a volte amaro, a volte dolcissimo, della narrazione. Di una celebrazione apparentemente banale, eppure ardua e altissima, che soltanto pochi scrittori sanno officiare. Quando sono in uno stato di grazia creativo. Quando il demone della letteratura si impossessa di loro. Per portare dentro le pagine che produrranno il fuoco freddo della normalità. In una sequenza di destini che assomigliano maledettamente a quelli che si consumano, ogni giorno, al di là della carta scritta.

Di certo, quando David Szalay ha scritto “Tutto quello che è un uomo“, il demone della letteratura doveva essersi appollaiato sulla sua spalla. E non conta tanto il fatto che lui, con questo libro tradotto splendidamente da Anna Rusconi per Adelphi (pagg. 402, euro 22), sia stato scelto tra i finalisti del Man Booker Prize, che poi non ha vinto. E nemmeno che la prestigiosa rivista “Granta” lo abbia inserito nella lista dei Best Young British Novelist. Conta molto di più, infatti, constatare che questo romanzo in nove quadri è senza dubbio uno dei migliori libri non solo usciti nell’annata 2017, ma più in generale negli ultimi anni.

Motivo di tanto entusiasmo? Semplice: David Szalay, 43 anni, nato a Montreal, vissuto in giro per l’Europa prima di approdare a Budapest, arrivato alla letteratura prima con “Innocent” e poi con “Spring”, è riuscito nell’impresa che molti altri suoi colleghi inseguono per tutta la durata della loro carriera. Ovvero, quella di sintonizzarsi sulle onde lunghe della vita reale per distillare da un cumulo di vicende in apparenza normali, addirittura banali, un impasto narrativo che non solo sa fotografare con raggelante lucidità le traiettorie di chi abita il nostro tempo. Ma che sa fare, con chirurgica precisione, delle storie di piccoli uomini un impasto narrativo dalla forza dirompente.

Nove storie, si diceva, raccontano “Tutto quello che è un uomo”. Seguendo un’ipotetica evoluzione, un divenire che prende avvio dall’adolescenza di due amici, Ferdinand e Simon, che si trovano per la prima volta insieme a Berlino a fare i conti con la realtà della vita. E non sanno ancora che saranno proprio le loro scelte a scavare un solco profondo, e impossibile da eliminare, tra di loro. Poi il viaggio narrativo prosegue sulle tracce dei francesi Baudouin e Bernard, che progettano una vacanza insieme in Grecia fino a quando uno dei due deve fare un passo indietro. Lasciando all’altro l’ingrato compito di scoprire, sotto il sole martellante di un’estate da spiaggia, le ombre buie che lo abitano. La trilogia della giovinezza si conclude in una Londra senz’anima, dove il palestrato, timido Bàlasz viene chiamato a fare da angelo custode a Emma, la bellissima ragazza del suo geloso capo, Gàbor. Per fare in modo che lei possa portare a casa un bel po’ di soldi senza che i ricchissimi clienti le facciano del male. E senza che lui, montagna di muscoli dal cuore tenero, faccia mai l’errore di confessarle quanto la vorrebbe tutta per sé.

La forza di questo libro sta tutta nel dare voce a sentimenti fragili, a piccoli momenti di smarrimento, senza mai aggrapparsi alla retorica. Ma, soprattutto, senza trasformare la storia che sta raccontando in una parabola. In un sermone compiuto dove tutto torna, magari regalandoci anche una scontata morale conclusiva. Perché la vita non è così geometricamente perfetta. E allora alla ragazza innamorata di uno studioso del Medioevo, che antepone i successi di carriera a qualunque altra cosa, toccherà sentirsi proporre un banalissimo ricorso all’aborto quando confesserà di aspettare un bambino. E all’uomo d’affari, ormai in disgrazia, che partecipa al funerale della madre senza provare la minima emozione, basterà lasciarsi per qualche istante travolgere dai ricordi per provare un terribile vuoto dentro. E capire finalmente che cosa significa perdere la donna che ti ha dato la vita: “Ma’ dove sei adesso? Mentre osserva gli aerei che si muovono nel debole sole ottobrino, si ritrova copn le lacrime agli occhi”.

C’è tutta la malinconia che attraversa l’Europa del terzo millennio nel libro di Szalay. Quell’aggrapparsi a un capitalismo sfrontato e arido come il più desolato deserto, capace di trasformarsi in fretta da sogno dorato straricco di promesse a impietoso tramonto dove ogni errore fatto si ripaga per il doppio del suo valore. Quel capire che la vita non è un gioco, ma si può provare a spremerla come un limone. Trasformando, ad esempio, un piccolo paradiso sulle Alpi francesi in una squallida speculazione edilizia mascherata da villaggio vacanze di alto profilo. Quel fare i conti con ciò che aspetta tutti noi al capolinea del tempo che ci è stato assegnato: la morte. Senza trovare il coraggio, però, di presentarsi all’appuntamento senza barare. Lasciando perdere le mille maschere che abbiamo a portata di mano per ogni occasione. E che finiscono per soffocare nel silenzio ogni autentica emozione.

Ma proprio perché David Szalay ha il coraggio di non abbassare mai gli occhi davanti alla vita, questo libro fa pensare e sorridere, ridere. Diverte e inquieta, sa costruire momenti di tensione, imbarazzo, e al tempo stesso non risparmia occhiate irriverenti verso chi si illude di stare con i piedi ben piantati nella realtà. E, invece, finisce per raccontare soltanto consolatorie, gigantesche bugie. A se stesso, prima di tutto. E poi agli altri. Perché la vita, in fondo, è un gioco. E il suo misterioso segreto sta tutto nel saper scoprire le regole. Per giocarsela alla grande.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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